lunedì 9 aprile 2018

Una divinità femminile immersa nelle acque (primordiali) una dea bianca da immolare; la Balena Bianca

Centosessant'anni fa Melville pubblicava il suo capolavoro
E la Balena bianca torna. Fino a poco tempo fa, era la sinistra a sventolare lo spauracchio del ritorno dei vecchi democristiani: cronaca recente vuole che siano anche i “giovani” virgulti del Popolo della Libertà a tacciare Pisanu & Co. di veterodemocristianismo da prima Repubblica. La Balena bianca che incrociava nelle lande desolate del Mezzogiorno e delle verdi pianure venete, in questa lunga notte della (seconda) Repubblica che ormai volge alla fine (quale fie però non si sa...) s' è vista come un essere del mito: ora immergendosi, ora apparendo all’improvviso. Facendo capolino tra i flutti inquietanti della politica italiana, il povero cetaceo albino ogni volta si è sorpreso che non ci fosse l’arcigno grugno di Achab ad aspettarlo per fiocinarlo. Beh, Achab non c’è più, profondato sempre di più nell’abisso della sua coscienza, troppo impegnato a chiedersi: “Ma io chi sono, da dove vengo, dove vado e soprattutto stasera per cena che mi preparo?”

E la Balena bianca, quella della bassa metafora politica, torna in queste ore sulla scena!
L'altra, il Leviatano del mito, rimane nel suo spazio di sogno.
La Balena era ingannatrice, di proporzioni abnormi, era simile a un’isola. I marinai, ignorando questa tradimentosa realtà, approdavano, legavano ad essa le loro navi. Bivaccavano e accendevano i fuochi per cuocersi qualcosa. Non appena avvertiva il calore sul dorso, s’immergeva trascinando le navi nel fondo del mare. Questo è il mostro, simbolo del demonio.
Poi, poi c'è la Balena dell'arte, del cinema, della letteratura e della musica.[1]
Questa Balena bianca è doppiamente ambigua: perché il suo biancore, comune segno di purezza e candore, è in realtà un terribile presagio della fine e della perdizione. Ambasciatrice d’inquietudine: il banco simbolo del bene, allorquando appare spoglio del bene stesso, è foriero di male e peccato.
L’Achab di Melville, questo lo sapeva molto bene. «Si sa, in molti oggetti naturali la bianchezza aumenta e raffina la bellezza, come se le impartisse qualche sua speciale virtù: come nei marmi, nelle camelie, e nelle perle. In certo modo, vari popoli hanno riconosciuto in questo colore una qualche preminenza regale. […] Perfino nei più profondi misteri delle grandi religioni, il bianco è stato fatto simbolo della purezza e della potenza divine: per gli adoratori del fuoco persiani, la fiamma bianca a due punte era la più santa sugli altari; nei miti greci, il grande Giove in persona s’incarna nel toro candido; […] nella Visione di San Giovanni i redenti portano vesti bianche, e i ventiquattro anziani stanno vestiti di bianco davanti al gran trono candido, e il Santo che vi siede è bianco come la lana. Eppure, nonostante questa montagna di associazioni con tutto ciò che è soave e venerabile e sublime, sempre nell’idea più profonda di questo colore si acquatta un che di ambiguo, che incute più panico all’anima di quel rosso che ci atterrisce nel sangue. È questa qualità inafferrabile che rende l’idea della bianchezza, quando è separata da associazioni più benigne e accoppiata con un oggetto qualunque che sia terribile in se stesso, capace di accrescere quel terrore fino all’estremo.» (Moby Dick, Cap. XLII)

Melville, più avanti spiega il suo pensiero: «In un uomo albino, cosa c’è che ripugna in modo così particolare e spesso offende l’occhio, tanto che a volte egli è aborrito perfino da amici e familiari? […]E da quel pallore dei morti prendiamo in prestito il colore simbolico del sudario in cui li fasciamo. Nemmeno nelle nostre superstizioni ci dimentichiamo di gettare lo stesso mantello di neve attorno ai fantasmi: tutti appaiono in una nebbia lattiginosa. Sicuro, e mentre siamo soggetti a queste paure, aggiungiamo che lo stesso re del terrore, com’è personificato dall’evangelista, monta un cavallo pallido. Perciò, sebbene in diversi stati d’animo l’uomo si compiaccia di simboleggiare col bianco tante cose delicate o grandiose, nessuno può negare che nel suo più profondo, ideale significato, la bianchezza evochi nell’anima come uno strano fantasma. […] So bene che la mente comune non riconosce che questo fenomeno della bianchezza è la causa principale che aumenta il terrore di cose già terribili; e chi manca di fantasia non ha affatto paura di certi oggetti apparenti che per altri sono orribili solo perché presentano quel fenomeno, sopratutto se esso si manifesta in una forma che tende al silenzio o all’astrazione.»
Devo esser sincero, io Moby Dick l’ho letto solo dopo aver sentito l’efficace compendio fattone da Vinicio Capossela ne La bianchezza della balena in Marinai, profeti e balene:
Sebbene sia bianco il signore degli elefanti bianchi
Che i barbari Pegu pongono sopra a ogni cosa
E bianche le pietre che i pagani antichi donavano
in segno di gioia, per un giorno felice
Bianche cose nobili e commoventi,
Come i veli di sposa
L’innocenza, la purezza, la benignità dell’età
Sebbene abiti bianchi vengano dati ai redenti
Davanti a un trono bianco,
Dove il santissimo siede, bianco come la lana
Sebbene sia associato a quanto di più dolce,
Onorevole e sublime
La bianchezza della balena
Niente è più terribile di questo colore,
Una volta separato dal bene,
Una volta accompagnato al terrore
La bianchezza dello squalo bianco,
L’orrida fissità del suo sguardo
che demolisce il coraggio
La fioccosa bianchezza dell’albatro,
nelle sue nubi di spirito
La bianchezza dell’albino bianco
E cosa atterrisce dell’aspetto dei morti
se non il pallore
Bianco sudario colore?
Spettri e fantasmi immersi in nebbie di latte
Il re del terrore avanza nell’apocalisse
Su un cavallo pallido
E pallidi i cappucci della pentecoste
E il mare nel suo richiamo abissale
Nell’antartico, bianco sconfinato cimitero,
il bianco sogghigna nei suoi monumenti di ghiaccio
Il pensiero del nulla si spalanca nella profondità lattea del cielo
Bianco l’inverno bianco, la neve bianca,
bianca la notte
Bianca l’insonnia bianca, la morte bianca
e bianca la paura è bianca
L’universo vacuo e senza colore
Ci sta davanti come un lebbroso
Anche questo è la bianchezza della balena
La bianchezza della balena
Capite ora la caccia feroce? Il male abominevole,
l’assenza di colore
Moby Dick è un gran bel romanzo. Forse un po’ prolisso per la sensibilità del lettore moderno affascinato da Dan Brown. È un capolavoro. Vale la pena ricordare la trama del libro: il Pequod, una nave baleniera comandata dal capitano Achab, attraversa l'oceano a caccia di capodogli e balene, e in particolare della enorme balena bianca. Ma il romanzo, come ogni grande libro, è qualcosa che va oltre. Le scene di caccia, che pure ci sono, sono inframmezzate dalle dissertazioni, dalle riflessioni scientifiche, teologiche, protopsicologiche e filosofiche di Ismaele, il narratore. Il risultato finale è che il libro è un’allegoria e, al contempo, un vero e proprio racconto epico.
Il Pequod è una nave di morti, è una nave di morte. Il capitano precedente Peleg l’ha decorata con le ossa-trofeo delle balene catturate. Affonderà a causa della balena, come accadeva, aldilà della pura dinamica, nelle descrizioni dei bestiari medievali.

L'Achab di Gregory Peck

Nocchiero di questo terribile bastimento è il capitano Achab. Incurante di tutto guida il proprio equipaggio alla folle impresa dell’uccisione del terribile mostro. Un’idea fissa la sua: se capitan Uncino c’ha rimesso una mano, Achab è mosso dalla vendetta perché il cetaceo gli ha divorato una gamba e qualcos’altro: un corpo straziato, uno spirito umiliato, l’odio covato nella convalescenza, la brama di riscatto. Moby Dick è dunque una storia dell’abisso, l'abisso reale delle profonde oscurità oceaniche e le profondità inquietanti di una mente tormentata dell'idea della salvezza: Achab si perde perché si illude di poter uccidere il demonio, il Leviatano, la Balena bianca. Si perde perché non sa resistere al richiamo della vendetta e di ultimo riscatto.

Vinicio Capossela
E qui è la fine: un’unica fiamma brucia tutto e tutti, e quella fiamma è, e non può non essere, che bianca:
Sì sì, marinai, osservatela bene, la fiamma bianca
illumina soltanto la via verso la balena bianca
sebbene tu sia luce, che prorompe dalla tenebra
io sono tenebra che prorompe dalla luce!
Io brucio con te, forza del cielo, io ti adoro sfidandoti!
Achab e Moby Dick sono complementari e opposti, una sorta di ying e yang (vedi l'articolo di Manuela Bellomo. È ancora l’acuto Capossela,che canta la fine del Pequod nella sua Fuochi fatui.
In definitiva Moby Dick di Melville, pubblicato centosessanta anni fa e tradotto da Pavese ottanta anni dopo, è un capolavoro perché parla anche di noi e del minacciosissimo oceano che stiamo attraversando in questi ultimi anni.

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