mercoledì 31 maggio 2017

I Padri del Deserto e l'Esicasmo, la preghiera delle origini del cristianesimo nata nell'Egitto faraonico

martedì 30 maggio 2017

Canon Rock (Laura cover)19/19 ( il canone di pachelbel rivisitato)

Il mistero siamo noi!

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Tutto ci sfugge. Tutti. Anche noi stessi. La mia stessa esistenza, se dovessi raccontarla per iscritto, la ricostruirei dall'esterno, a fatica, come se fosse quella d'un altro.
Marguerite Yourcenar

lunedì 29 maggio 2017

Il suono che si produce in certi luoghi modifica la mente e i sensi

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Archeologia. La pietra e il suono: esistono architetture preistoriche progettate per manipolare la mente umana attraverso le frequenze acustiche?
Riflessioni di Giorgio Giordano
http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2017/05/archeologia-la-pietra-e-il-suono.html?spref=fb

giovedì 25 maggio 2017

Politica e innamoramento: Matilde e Gregorio VII da Sovana

E Matilde rinunciò al marito per amore di papa Gregorio VII
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DIRE Matilde di Canossa significa far riferimento alla Roma medievale della seconda metà del secolo XI. E' la città dei papi in lotta contro i Normanni e l' imperatore Enrico IV, con la marchesa di Toscana braccio destro di quattro papi tra il 1066 e il 1099. Tutto inizia con Alessandro II, quando Matilde è con il patrigno Goffredo a capo di un esercito nel respingere i Normanni di Riccardo d' Aversa, che compie scorrerie nella Campagna Romana; e lei è ancora in armi con il marito Goffredo il Barbuto e la madre Beatrice ad Aquino nel 1073 contro Roberto il Guiscardo, che non vuole riconoscersi vassallo del nuovo papa Gregorio VII, al secolo Ildebramdo di Soana, e finisce sconfitto in una battaglia che dura 19 giorni. Matilde vittoriosa con la madre Beatrice si trasferisce a Roma, mentre il marito se ne torna in Toscana; entrambe diventano consigliere fidate del papa in quello che viene chiamato il "senato delle femminelle" con "chiacchiere ingiuriose" che cominciano a circolare. Matilde vorrebbe tornare dal marito, ma ci rinuncia di fronte a una lettera del papa che le fa presente l' impossibilità di «rompere o indebolire l' affetto con il quale Dio ha voluto unirci». E da lontano l' imperatore Enrico IV grida allo scandalo per quel papa che «separa coloro che Dio ha unito». In risposta arriva il Dictatus papae, nel quale si afferma la superiorità del papa sull' imperatore, che si risente aprendo un' ostilità destinata a durare a lungo, con tanto di attentato al papa. Matilde allora entra nelle stanze del Laterano ed è solo da lei che il papa vuole essere curato. Una volta guarito scomunica Enrico IV con i conseguenti dibattiti che portano il papa nel 1077 a chiudersi a Canossa, ospite di Matilde. E sono altre "chiacchiere ingiuriose". D' altronde le lettere di Ildebrando parlano da sole: «Se io sono amato come amo, sono obbligato a credere che nessun mortale tu mi preferisca, così come io non ti antepongo nessuna donna al mondo». Una volta morto Gregorio VII Matilde seguita ad essere vicina al papato come una papessa, dignitosa e pura di intenti. Una specie di papessamadre. Così è con Vittore III, che vorrebbe starsene tranquillo a Montecassino a fare il frate e lei nel 1087 lo riporta a Roma «quasi ricordandogli come sia suo dovere non allontanarsi dalla sede di Pietro», come commenterà il Gregorovius.
Di Claudio Rendina da "LA REPUBBLICA"


La Trance e le Neuroscienze


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Viaggi interiori e stati di trance, insight e channeling, tamburi e danze sincopate. Il mondo dello sciamanesimo all’epoca dell’Internet è quanto mai attivo laddove mai si penserebbe esserlo: nelle grandi città dell’Occidente, apparentemente così poco attente agli universi interiori e quanto mai lontane dalle tradizioni animiste più datate.
In realtà, in molti centri deputati, negli ultimi anni si sono andati formando gruppi studio e pratica dell’arte sciamanica mutuata da ogni parte del globo, dall’estremo Nord al profondo Sud. Molte sono le tecniche di induzione della trance: danze, tecniche di respirazione e di vocalizzazione e, non ultimo, l’uso dei tamburi, utile a indurre, oltre a uno stato alterato/espanso di coscienza, anche ciò che viene definito come “viaggio di conoscenza” o “insight”.
L’uso del tamburo nelle tecniche di accesso alla trance risale a milleni orsono e, in alcune parti del mondo, non si è mai esaurito né dimenticato, trattandosi tra le altre cose, di una tra le forme di guarigione più antiche e conosciute dall’umanità intera. Questa forma di globalizzaazione ante litteram non può che suggerire un fondamento biologico nel raggiungimento dello stato di trance.
In realtà, dal punto di vista strettamente scientifico, si sa molto poco riguardo la storia e i processi dello sciamanesimo, sul suo significato profondo in relazione all’esperienza umana. Ancora meno è dato conoscere come si strutturano e relazionano le connessioni neurali durante una trance che includa uno stato alterato o espanso (che dir si voglia) di coscienza.
Molti però sono i casi allo studio. È noto l’immenso apporto di molti monaci buddisti, Dalai Lama in prima linea, per lo studio e la ricerca su basi scientifiche degli effetti della meditazione sul cervello e di conseguenza sulla vita umana.
Più rari ma non meno importanti sono i casi di ricerca relativi agli stati di trance “naturalmente” indotti, per ersempio con l’ausilio del suono dei tamburi. Tra i vari studi, diversi ricercatori, in collaborazione con i ricercatori del Max Planck Institute, in Germania e l’MGH Martinos Center for Biomedical Imaging, di Charleston in Massachusetts, hanno indagato per la prima volta proprio su questo fenomeno, avvalendosi della partecipazione di quidici sciamani definiti “esperti”, chiamati a raccolta da Austria e Germania. L’esperimento (8 minuti di scansione) ha avuto luogo grazie all’utilizzo di uno strumento di indagine sofisticato: la fMRI ovvero functional Magnetic Resonance Imaging. La diagnostica ha avuto luogo sia mentre gli sciamani risultavano in stato di coscienza “normale” che alterato, mentre ascoltavano il suono dei tamburi.
Le analisi hanno messo in luce una grande attività di interconnessioni tra diverse aree del cervello, durante lo stato di trance. Ad esempio, gli scienziato hano rilevato un incremento di connettività nella corteccia cingolata posteriore, una attivazione contemporanea di specifiche aree del cervello che hanno favorito il mantenimento dello stato di interiorizzazione durante la trance.
E ancora, gli scienziati hanno constatato una minore connettività del sistema uditivo, a suggerive che il suono ripetitivo dei tamburi, che spesso acocmpagna i rituali sciamanici, è talmente prevedibile, da richiedere poca attenzione e un numero minimo di processi addizionali. Da qui, si potrebbe dedurre la ragione per la quale il suono di tamburi è così comune nell’induzione della trance presso la maggior parte degli svìciamani che, in questo modo, si distaccano facilmente dall’ambiente esterno e dai suoi stimoli mentre, contemporaneamente, gli è utile per espandere la direzione interiore e facilitare la visione, la conoscenza, la veggenza che gli sono d’aiuto nelle diverse tecniche di guarigione.

mercoledì 24 maggio 2017

Sirio e Beta Sirio Conosciuta dai Dogon -eredi della sapienza egizia-

I DOGON, UN ANTICO POPOLO DI ASTRONOMI

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I Dogon sono forse in contatto con altri mondi? Una cultura antichissima e misteriosa o solo una leggenda?
I Dogon sono circa 240.000, sparsi nei numerosi villaggi della falesia di Bandiagara, nel Mali, zona che è stata dichiarata “patrimonio dell’umanità” dall’Unesco per la sua importanza culturale.
Le maschere sono il simbolo religioso più espressivo della fede dei Dogon, usate durante cerimonie e danze rituali. La festa più importante è il “SIGUI”, che si svolge ogni 60 anni e durante la quale intagliano un nuovo “iminana”: la Grande Maschera a forma di serpente, che può raggiungere i 10 metri. Le maschere sono visibili anche in occasione dei funerali.
La pianta del villaggio rappresenta schematicamente la figura del corpo umano. I Dogon furono studiati per la prima volta da Marcel Griaule, che nel famoso libro “Il Dio d’acqua” raccontò l’iniziazione ricevuta dall’Ogotemmeli, personaggio che gli aveva trasmesso i segreti della cosmogonia della mitologia dogon, rivelando così alla cultura europea un mondo misterioso e affascinante.
I Dogon conoscono i misteri della stella Sirio e forse dell’origine dell’umanità.
Nella cultura tribale africana dei Dogon, le tradizioni sacre più segrete sono basate su ipotetici contatti con esseri evoluti provenienti da un pianeta della stella Sirio, avvenuti prima del 3000 a.C. Solo pochi anni fa la moderna astronomia, con i suoi potenti strumenti di osservazione e di calcolo, ha potuto confermare l’effettiva esistenza di quel pianeta. I Dogon sanno da secoli che Sirio è una stella multipla (!) e che l’orbita ellittica (!) della stella più piccola (invisibile e oggi detta Sirio B), richiede un tempo di 50 anni (!) per essere completata; inoltre per loro Sirio B è costituita da materia più pesante della stella principale … e il tutto è confermato dall’odierna astronomia.
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Come è possibile che essi abbiano queste informazioni? Quello che sappiamo per certo è che già le antiche civiltà mediterranee degli Egizi e dei Sumeri custodivano straordinarie conoscenze astronomiche, forse trasmesse da visitatori provenienti da mondi lontani … A tal proposito i Sumeri parlavano di esseri anfibi (come Oannes) che istruirono il popolo alle arti ed alle scienze e lo stesso fanno i Dogon chiamando questi dei primitivi “Nommo”.
Oannes era una divinità assira (particolare dal palazzo reale di Sargon II,721-705 a.C., Iraq): secondo R. Temple, autore, de “Il mistero di Sirio”, corrisponderebbe al dio pesce Nommo dei Dogon,(antenato alieno anfibio disceso sulla Terra nel remoto passato; si veda in figura la parte posteriore del capo-tronco pesciforme). La tribù africana dei Dogon ha conoscenze cosmiche incredibili (come il fatto che la stella Sirio è di tipo multiplo, scoperta recente dell’astronomia) che farebbero pensare ad un incontro remoto con civiltà avanzate non terrestri. Sitchin individua queste civiltà come provenienti da un decimo pianeta solare che i Sumeri chiamavano Nibiru.
L’enigma dei Dogon di Colin Wilson (da “Dei dell’altro Universo” – PIEMME 1999)
… Ma c’è un mito in particolare che secondo Shklovskii e Sagan potrebbe presumibilmente riferirsi a un contatto tra esseri umani e alieni. “La leggenda” scrivono, “suggerisce che avvenne un contatto tra gli uomini e una civiltà extraterrestre, prodigiosamente evoluta, sulle coste del Golfo Persico, forse nei pressi dell’antica città sumerica di Eridu, nel IV millennio a.C., o poco prima”.
La leggenda può essere fatta risalire a Beroso, sacerdote del dio Bel-Marduk nella città di Babilonia di tempi di Alessandro Magno. Beroso aveva accesso a incisioni cuneiformi e pittografiche (su cilindri, tavolette e pareti dei templi) risalenti a migliaia di anni prima. In uno dei frammenti a lui attribuiti, Alessandro Polistore descrive la comparsa nel Golfo Persico di “un animale dotato di ragione, che fu chiamato Oannes”. Questa creatura aveva una coda di pesce, ma anche piedi simili a quelli degli esseri umani, e parlava con voce umana. Insegnò agli uomini la scrittura e le scienze, ogni sorta di arte e anche a costruire case e templi. “In breve, egli li istruì in tutto ciò che poteva civilizzarli”. Oannes era solito trascorrere la notte in mare, perché era anfibio. Dopo di lui, giunsero altre creature della sua razza.
Un altro antico cronista, Abideno, discepolo di Aristotele, parla dei re dei Sumeri e menziona “un altro semidemone, molto simile a Oannes, che giunse una seconda volta dal mare”. Egli menziona anche “quattro personaggi che gettavano duplice ombra”, con ciò intendendo presumibilmente metà uomini e metà pesci, “che giunsero dal mare”.
Infine, Apollodoro d’Altene scrive che all’epoca di re Amennon il Caldeo “apparve il Musarus Oannes, l’Annedotus, uscendo dalle acque del Golfo Persico”, e in seguito “un quarto Annedotus uscì dalle acque del mare ed era metà uomo e metà pesce”. E durante il regno di re Euedoresco comparve un altro uomo-pesce di nome Odacon.
Apollodoro definisce Oannes l’Annedotus, come se fosse un titolo anziché un nome proprio. Passai un’ora e mezzo cercando in vari vocabolari ed enciclopedie il significato di “annedotus” e anche di “musarus”, riuscendo finalmente a scoprire nel dizionario di greco di Liddell e Scott che “musarus” significa “abominevole”. Ma di “annedotus” nessuna traccia. Poi, ricordando che Robert Temple aveva menzionato il dio-pesce in The Sirius Mystery, consultai il suo libro e scoprii che avrei potuto risparmiare tempo e fatica, perché aveva già fatto il lavoro per me. “Annedotus” significa “il repellente”. Era sbalorditivo: il “Musarus Oannes l’Annedotus” significa “l’abominevole Oannes il repellente”.
Temple pensa, e sono incline a concordare con lui, che questa indicazione abbia a che fare con qualcosa di vero, piuttosto che con un’invenzione fantasiosa. Ci si aspetterebbe che una narrazione mitica che descrive i semidei che insegnarono agli uomini la civiltà, non li definisca disgustosi e repellenti. Ma basta visualizzare l’immagine di un essere simile a un pesce, ricoperto di viscide squame, dagli enormi occhi bianchi e la grande bocca, per renderci conto del comprensibile disgusto con cui fu descritto. Forse in quella descrizione non v’è nulla di peggiorativo; è semplicemente fedele, come, ad esempio, quelle di Ivan il Terribile o di Akbar il Maledetto.
Ora, si dà il caso che The Sirius Mistery di Temple, sia di gran lunga il libro più erudito e convincente sulla possibile presenza di “antichi astronauti” sulla Terra. Temple cominciò a interessarsi all’argomento quando s’imbatté in un articolo su una tribù africana, i Dogon, che vive nel Mali settentrionale. Scoprì che i Dogon credono in dei dal corpo di pesce chiamati Nommo, i quali, provenienti da Sirio, portarono la civiltà nel nostro pianeta circa tremila anni fa.
Sirio, la Stella principale della costellazione del Cane Maggiore, dista 8.6 anni luce dalla Terra. La tradizione Dogon sostiene che essa ha una compagna invisibile, da essi chiamata “po tolo” (stella di grano, e poiché il “grano” cui si riferiscono, che costituisce la loro dieta abituale, è la digitaria, potremmo tradurre “stella di digitaria”).
“Po tolo” è composta di materia molto più pesante di quella terrestre. I Dogon sostengono che questa stella invisibile percorra un’orbita ellittica, impiegando cinquanta anni per completarla. E in effetti Sirio, essendo una stella doppia, ha una compagna invisibile, chiamata dagli astronomi “Sirio B”: questa è una “nana bianca”, ossia è costituita di una materia talmente densa, a causa del collasso degli atomi che la compongono, che una minuscola quantità di essa, corrispondente alle dimensioni di un pisello, peserebbe mezza tonnellata. E, proprio come affermano i Dogon, Sirio B percorre un’orbita ellittica completa in cinquanta anni.
Le tradizioni di questa tribù rivelano una notevole conoscenza dell’astronomia; dicono che la luna è “secca e morta” e disegnano Saturno circondato da un anello che non è affatto visibile a occhio nudo. Sono a conoscenza dell’esistenza delle lune di Giove e sanno che i pianeti ruotano attorno al sole. L’Encyclopaedia Britannica dice che il sistema filosofico dei Dogon è “molto più complesso di quello di altre tribù africane”.
Era inevitabile che gli studiosi occidentali, quando vennero a sapere che i Dogon possedevano simili nozioni astronomiche, cercassero di dimostrare che probabilmente le avevano assimilate da viaggiatori europei. Gli astronomi occidentali scoprirono Sirio B nel 1862, dunque era possibile che i Dogon ne avessero sentito parlare da turisti o missionari. Ma bisognò attendere il 1928 perché Sir Arthur Eddington formulasse la teoria delle nane bianche. E i due antropologi che studiarono i Dogon, Marcel Griaule e Germaine Dieterlen, giunsero in Mali nel 1931. Pareva improbabile che altri viaggiatori fossero entrati in contatto con i Dogon nei tre anni precedenti, recando con sé le ultime scoperte astronomiche.
Ma c’è un motivo ancora più valido per scartare questa teoria (che in seguito fu sposata da Carl Sagan). Griaule studiò la mitologia e la religione Dogon per sedici anni prima che gli stregoni della tribù ricompensassero la sua dedizione iniziandolo ai loro segreti più gelosamente custoditi. Un anziano molto saggio e sapiente fu nominato suo “tutore” con l’incarico di insegnargli i quattro gradi della conoscenza religiosa della tribù. Occorsero anni e quando il maestro morì fu sostituito da un altro. Griaule si rese infine conto che la religione dei Dogon è altrettanto ricca e complessa della teologia cristiana illustrata da Tommaso d’Aquino nella sua Summa Theologica. Era assolutamente da escludere che gli dèi dal corpo di pesce dei Dogon fossero entrati nelle loro leggende a seguito di un incontro avvenuto nel secolo scorso, con un missionario dalle inclinazioni astronomiche: costituiscono, piuttosto, la pietra angolare di una mitologia che si è andata formando e sviluppando nel corso di migliaia di anni.
Se si aggiunge che la lingua sumerica non ha nulla in comune con quelle semitiche o indoeuropee, e che gli studiosi dei Sumeri sono sconcertati dal fatto che quella civiltà sembra essere sorta già matura dal nulla (come quella egizia), possiamo osservare che almeno a prima vista la teoria di Shklovskii ha un suo fondamento: gli dei dal corpo di pesce sono forse la traccia di un contatto con una civiltà extraterrestre. E se teniamo presente il mito dei Nommo dei Dogon, di cui all’epoca Sagan e Shklovskii erano all’oscuro, quella teoria si fa ancora più plausibile.

I Dogon: una falsa leggenda … di Gianni Comoretto
I Dogon sono una popolazione che vive vicino Mandiagara, 300 Km a sud di Timbuctu, nel Mali. Due antropologi, Marcel Griaule e Germaine Dieterlen, li hanno studiati dal 1931 al 1952, e hanno descritto una cerimonia associata con la stella Sirio, che si tiene ogni 60 anni.
Griaule e Dieterlen sostengono che i Dogon hanno diverse conoscenze sul sistema di Sirio che non è possibile ottenere se non con mezzi “moderni”. In particolare conoscono l’esistenza di una stella compagna (Sirio B, indicata dalla freccia accanto alla luminosissima Sirio A), che ruota attorno a Sirio con un periodo di 50 anni, e che è composta di materia incredibilmente pesante. Sirio B è visibile solo con un telescopio di discrete dimensioni, e la sua massa è stata determinata con tutto l’armamentario teorico dell’astronomia dell’inizio del secolo. Griaule e Dieterlen non fanno nessuna ipotesi su come i Dogon siano venuti a conoscere questi fatti.
La storia ha avuto però un “boom” con un libro di Robert Temple, in cui questi ha ipotizzato che i Dogon conoscessero questi fatti da almeno 500 anni e che li avessero appresi da esseri anfibi provenienti da Sirio. Altri “studiosi” ipotizzano che le conoscenze derivassero dagli egizi e che questi ultimi avessero telescopi in grado di vedere Sirio B. Tutte queste ipotesi sono basate su elementi a dir poco inconsistenti. Nessuno di questi “studiosi” ha fatto ulteriori ricerche, ma hanno semplicemente lavorato di fantasia sugli studi di Griaule e Dieterlen.
Ad es. la datazione di 500 anni dipende dal fatto che i Dogon costruiscono una maschera cerimoniale ad ogni cerimonia; in un sito archeologico sono state trovate 6 maschere, più due cumuli di polvere che potrebbero essere altre 2 maschere. In ogni caso, pur ammettendo che questo porti indietro a 480 anni fa, dimostrerebbe solo che il rito è molto antico.
L’esistenza di telescopi egizi è stata invece dedotta dal ritrovamento di una sfera di vetro ben lavorata, che dimostrerebbe che gli egizi potevano lavorare il vetro, quindi potevano fare delle lenti, quindi potevano fare dei telescopi, quindi potevano fare dei grossi telescopi …
Un ulteriore revival di questa storia, sempre senza che nessuno raccogliesse ulteriori elementi sul campo, è sorto quando sostenitori dell’afrocentrismo hanno ipotizzato che le popolazioni africane potessero vedere stelle molto deboli ad occhio nudo, per misteriose proprietà della melanina.
Il lavoro di Griaule e Dieterlen è stato criticato per molti aspetti: i due hanno sempre lavorato con interpreti e tutta la storia di Sirio deriva da interviste ad una singola persona. Non hanno tenuto conto del fatto che i Dogon tendono ad evitare ogni forma di contrasto e quindi a non contraddire una persona stimata e rispettata (come erano loro), se questa fa ipotesi un po’ strampalate. Griaule e Dieterlen affermano che i Dogon conoscono pure una terza compagna di Sirio, che non è conosciuta. L’interpretazione della stella compagna come una stella doppia è scarsamente documentabile anche dal lavoro dei due antropologi.
Ma la cosa che fa crollare miseramente la teoria è che i Dogon non sono inaccessibili; sono una delle etnie più studiate del centro Africa e nessuno ha mai trovato traccia delle conoscenze anomale. Al di fuori praticamente dell’informatore di Griaule e Dieterlen, nessuno ha mai sentito parlare di stelle compagne, o di periodi di 50 anni, o di materia ultrapesante. Questo non è spiegabile con conoscenze segrete, perché i Dogon non hanno un corpo mitico segreto. La conoscenza è diffusa, senza una casta che custodisce i segreti religiosi.
Walter Van Beek, che ha passato 11 anni tra i Dogon, ha trovato che pochissimi Dogon utilizzano i nomi Sigu Tolo e Po Tolo (Sirio A e Sirio B secondo Griaule). L’importanza di Sirio è minima nella loro cultura. Nessuno, neppure gli informatori di Griaule, hanno idea che Sirio sia una stella doppia. Jacky Boujou, che di anni coi Dogon ne ha passato 10, concorda in pieno. E sottolinea che le teorie di Griaule possono essere interpretazioni distorte di quest’ultimo, confermate per spirito di armonia dal suo interlocutore.
Sagan ha ipotizzato che le conoscenze anomale potessero essere il frutto di racconti di visitatori occidentali, poi entrate nella cultura Dogon; i Dogon hanno infatti miti “bianchi” diventati in meno di una generazione parte della loro cultura.
Fonte:http://www.cerchinelgrano.info/i_dogon.htm

lunedì 22 maggio 2017

Il mistero della tomba di San Francesco



Il mistero della tomba di San Francesco


Post n°132 pubblicato il 26 Novembre 2010 da knighttemplar
Copiato da http://blog.libero.it/templars/9556360.html


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la Basilica di Collemaggio e sul Segreto delle Tre ottave, mirante a trasformare "il quadrato della materia nel cerchio dello Spirito", segreto rimasto purtroppo volutamente nascosto e dimenticato nella pietra come le reliquie eccezionali, offerte dai Templari a Celestino e scomparse nel nulla, ma che fino a qualche secolo fa venivano mostrate ai pellegrini durante la Perdonanza celestiniana, come la spina della corona poggiata sul capo di Gesù, o l’indice della mano destra di San Giovanni, che Baldovino, Re di Gerusalemme, aveva consegnato all’Ordine. Non solo le reliquie sono scomparse e dimenticate dal tempo, ma anche una delle figure più eminenti di quel periodo storico, frate Elia, successore di San Francesco alla guida dell’Ordine dei Frati Minori, architetto e fine conoscitore delle arti alchemiche, amico intimo e consulente del beato Francesco e dello stesso imperatore Federico II, che consigliava nella costruzione di castelli e di chiese, indicandogli i luoghi più adatti, spesso sopra antiche vestigia classiche, come Castel del Monte in Puglia, ristrutturato nell’attuale forma ottagonale su un antico castro romano progettato dal Vitruvio, o la Basilica di Assisi, eretta, sotto la sua abile guida, dalle libere muratorie dell’epoca. Nella Biblioteca Nazionale di Firenze vi è infatti un manoscritto dal titolo già di per sé eloquente: "Speculum artis Alkimie Fratris Helyae O. Min. S. Francisci, qui ex dicta arte componi fecit seu fabricare Ecclesiam S. Francisci in Assisio", esplicita conferma del "metodo" usato da Elia per l'erezione della basilica assisiate. Se ne ha un’indiretta conferma nell'antico cimitero della chiesa, dove si trovano, alcune tombe, che, secondo l'elenco compilato nel 1509 dal sacrestano Fra Galeotto, vengono classificate come "sepoltura di tutti li maestri lombardi (altro nome con il quale venivano designati i maestri comacini) della città di Assisi". In una di queste è sepolto il Maestro Giovanni, figlio del Maestro Simone, morto il 7 luglio. Sulla lapide, su di un fondo di pietra rossa di Assisi, spiccano due grandi stelle a otto punte, con all'interno raffigurati due leoni rampanti con scudo crociato (il leone e la croce diverranno poi lo stemma della città di Assisi). Un'altra di queste tombe, appartenente a Ciccolo di Becca, morto nel 1330, presenta un insieme sconcertante di simboli: la Rosa-Croce accanto a una squadra e un punteruolo e, di nuovo, una stella a otto punte. Elia, Vicario generale dell'Ordine, coadiuvato dai più esperti "maestri comacini" dell’epoca, riuscì a trovare le risorse per costruire "ilSantuario" e "il Convento" nel 1228, per poter conservare il corpo di San Francesco, nato nel 1182 e morto il 3 ottobre 1226. La prima pietra per la Chiesa Inferiore la posò Papa Gregorio IX il giorno successivo alla canonizzazione del santo in data 17 luglio 1228 I lavori di costruzione ebbero inizio a due anni dalla morte del Santo. I lavori per il primo completamento furono portati a termine in circa due anni, onde consentire la traslazione della salma di San Francesco, provvisoriamente sepolta nella Chiesa di S. Giorgio (la futura chiesa di S. Chiara). Il terreno roccioso su cui sorge fu donato ai Frati Minori dai ricchi possidenti di Assisi, ma ufficialmente la donazione fu effettuata a beneficio del Pontefice Gregorio IX, in virtù della regola francescana della povertà assoluta. Ancora oggi la Chiesa ed il Convento fanno parte del patrimonio del Vaticano. Il colle, prima conosciuto come "colle dell’Inferno" in quanto luogo in cui venivano eseguite le sentenze capitali, fu chiamato "colle del Paradiso", proprio perché destinato ad ospitare le spoglie del Santo. L‘inizio dei lavori per la Chiesa Superiore non è tramandato, però dovrebbe essere successivo all‘abdicazione da Generale dell‘Ordine di fra Elia nel 1239, che fino ad allora aveva diretto i lavori della Chiesa inferiore romanica. Le due chiese furono comunque consacrate da Papa Innocenzo IV nel 1253, anno in cui non erano ancora iniziate le decorazioni ad affresco successive. Le vele della volta (1315-20) raffigurano l’Apoteosi di S. Francesco e Allegorie dell‘obbedienza, della povertà, e della castità ad opera del cosiddetto Maestro delle Vele. Sulle pareti della navata, dopo un restauro, sono riapparsi i primi affreschi della Basilica, ancora di dubbia attribuzione, forse opera di Giunta Pisano o di un suo allievo. Il ciclo di affreschi, raffigurante alcune vicende della vita di San Francesco, fu mutilato per l’apertura di archi di accesso alle cappelle laterali. Inizialmente la Basilica di Assisi fu progettata come edificio a due piani, di cui quello inferiore rappresenta il Santuario vero e proprio. La navata centrale è in stile romanico ed è immersa in una sottile penombra, dato che, nella concezione di frate Elia, la chiesa inferiore doveva servire come "cripta". Il pavimento della Chiesa è stato realizzato con marmi di colore bianco-rosato del Subasio, che creano un suggestivo effetto cromatico, richiamando "simboli templari". Alla Chiesa Inferiore si accede attraverso un portale in stile gotico, sormontato da un rosone finemente cesellato, opera di Francesco di Pietrasanta della fine del XV secolo.A sinistra dell’entrata sono esposte, in una cappella, alcune reliquie del Santo, tra le quali "una misera tonaca da frate", che non è quella originale indossata dal beato pochi attimi prima di morire, offertagli da frate Elia, che ora si trova esposta nella Basilica di Cortona, con due altre reliquie, il "cuscino", dove Francesco aveva posato il capo negli ultimi istanti della sua vita e "l'evangelario", che portava sempre con sé. L’altare maggiore risale al 1230, il baldacchino invece al XIV secolo. Originariamente era contornato da "12 colonne", in evidente analogia con il Sacro Sepolcro di Gerusalemme, ma fu deciso di eliminarle nel 1870 da sprovveduti ed incompetenti, come è successo tante volte. Ancora più eclatante fu la decisone di un vescovo di Chartres, che fece sostituire le alchemiche vetrate dietro l’altare perché, a suo parere, non davano troppa luce. A metà navata troviamo due scalette che conducono alla cripta, che custodisce le spoglie mortali del Santo, aperture che al momento della traslazione non erano state ancora realizzate. Al centro della cripta in un blocco unico di pietra marmoria, dove per secoli era stata chiusa la salma, è stato creato un altare, dietro il quale si trova l'urna che conserva i resti del Santo. Nelle pareti del piccolo vano, protette da grate, si trovano le sepolture di quattro seguaci di Francesco, i beati Rufino, Leone, Masseo e Angelo Tancredi. Sulla scelta dei quattro non c’è un versione sicura. Sicuramente si tratta di coloro che erano stati più vicini al Beato Francesco. Ma ci potrebbero essere anche ragioni legate alla vita del Santo e ai primi 12 fraticelli, i quali formarono il gruppo che faceva da corona a Francesco agli albori del movimento. Dodici furono infatti i frati che Francesco volle intorno a Sé, come ci tramandano "i Fioretti", e amava definire "i miei cavalieri della tavola rotonda" (Speculum Perfectionis, IV, 72). Francesco proveniva da una famiglia benestante che gli aveva consentito di frequentare le migliori scuole dell'epoca. Era un uomo assai colto che, oltre che nella sua lingua, poteva scrivere in latino, sapeva benissimo il francese, conosceva la musica e aveva letto moltissimi romanzi in codici di pergamena, trai quali Oliviero e i poemi sulla leggenda di Re Artù e dei Paladini della Tavola rotonda, molto in voga negli ambienti che abitualmente frequentava. La storia ci indica come "primo discepolo" Bernardo da Quintavalle (magistrato), seguito da Pietro Cattani (canonico in San Nicolo' e dottore in legge) (+10 Marzo 1221). Poco dopo arrivarono Egidio (un contadino) e successivamente Sabatino, Morico, Filippo Longo e Prete Silvestro. Seguirono poi Giovanni della Cappella, Barbaro e Bernardo Vigilante ed infine Angelo Tancredi, il solo dei primi dodici discepoli, che avevano seguito Francesco, il cui corpo riposa accanto a quello di Francesco. Erano arrivati a essere in dodici e tutti i compagni vestivano come Francesco di un rozzo saio cinto da una corda. Innocenzo III, quando decise di riconoscere questo primo gruppo, considerato in un primo tempo eretico, li nominò come "chierici", dando a Francesco la qualifica di "Diacono" e tale rimase per tutta la vita, come dimostra la cerimonia del Presepe, ideata per la prima volta proprio da Francesco al ritorno dal viaggio in Siria, nella quale "la messa" venna celebrata da "un vero sacerdote", e poi il Beato "benedisse" i presenti. La tavola rotonda era stata ri-composta e, come in tutte "le favole", storia e leggenda si intrecciano, sfumando sempre più la verità dei fatti. Raggiunto il fatidico e simbolico numero, a questi primi undici discepoli si aggiunsero Masseo (da Marignano), Leone, Elia (Coppi) Ginepro, Tommaso da Celano (il primo grande biografo) e Pacifico (Guglielmo Divini). Oggi nella "cripta" della Basilica Inferiore di Assisi si trovano insieme, accanto alla tomba di San Francesco, quelle dei Beati Angelo Tancredi (+1258), Leone (+1271), il confessore di San Francesco, Masseo da Marignano (+ 1280), Rufino, cugino di Santa Chiara e Santa Agnese, Frate Guglielmo d’Inghilterra e, lungo la scala che dalla Basilica conduce alla cripta, il corpo della Beata [Frate] Jacopa dei Settesoli, nobildonna romana moglie di Graziano dei Frangipani, che aveva donato "il cuscino", una delle "tre reliquie" conservate nella Chiesa di San Francesco a Cortona, progettata anch’essa da frate Elia e dove si trova la sua tomba. Ma questa cripta è stata creata solo nel 1822, allargando "il buco" nel masso di marmo calcareo, di cui solo pochissimi conoscevano l’esistenza e l’effettivo utilizzo, essendo stato aperto nel masso marmoreo a un preciso ed inequivocabile scopo > preservare le sacre reliquie da qualsiasi contatto impuro, come avveniva per i corpi imbalsamati dei Faraoni, i cui "sarcofaghi" venivano resi inaccessibili ed inviolabili. L’abbiamo volutamente definito "un sarcofago", perché, come vedremo, per quasi seicento anni gi è stata garantita e preservata questa funzione. Fu proprio Elia a creare, nel piano interrato sotto il pavimento della Basilica inferiore , perpendicolarmente all'altare maggiore, non ancora installato, un vano della stessa larghezza e lunghezza, profondo circa quattro metri,in cui fu calato il sarcofago di travertino, pesante 12 quintali.avvolto in una gabbia di ferro che cingeva l'urna. sopra la quale vennero stese tre lastre di travertino, Una volta coperto il foro con l'altare maggiore,si creò un vano di circa m.1,70, a cui si accedeva a mezzo di uno stretto cunicolo - sembra di dodici gradini- nascosto da una botola mimetizzata e segreta, passando attraverso il corridoio d'accesso al coro antistante i penetrali , reso del tutto inaccessibile da un Papa francescano ,Sisto IV della Rovere, dopo la sua visita alla Basilica nel 1476. La scelta di camuffare l'entrata fu motivata - secondo i cronisti dell'epoca - dal rischio concreto di indebite profanazioni e conservare intatti i resti mortali, ma sopratutto per preservare da un culto feticistico il corpo di San Francesco, che fu traslato il 25 maggio 1230, in una strana cerimonia, in cui Elia, grazie ai poteri che gli conferiva la carica di Vicario generale, in accordo con le autorità comunali, giunto che fu l’imponente corteo alle soglie della nuova Basilica ed entrata che vi fu la santa reliquia, fece chiudere dagli armigeri del Comune il portone alle sue spalle, respingendo l’immensa folla e soprattutto, oltre ai più alti prelati, ai notabili e ai nobili giunti appositamente da ogni parte d’Europa. Frate Elia, chiusa la porta dall’interno, fece trasportare, con l’aiuto di alcuni fedelissimi, il corpo del Santo nella "cripta", all’uopo predisposta sotto il Santuario, di cui nessuno conosceva l’esistenza tranne i maestri che avevano diretto i lavori e le maestranze utilizzate, che erano state però tutte liquidate e fatte tornare ai loro paesi d’origine. Elia -così raccontano le cronache- allontanati i presenti e restato molto probabilmente solo alla luce della "strana posizione e valenza simbolica degli oggetti" ritrovati intorno al corpo, provvide, con un lungo e meticoloso lavoro, ad occultare nella roccia le spoglie mortali di Francesco, che vennero restituite alla venerazione ed esposte al pubblico solo seicento anni dopo, nel 1818. Di sicuro il sarcofago venne posto sotto l'altare maggiore, in luogo non accessibile al pubblico, ma forse visibile attraverso una "finestrella della confessione", come sostengono alcuni cronisti. Altri parlano invece di uno stretto "cunicolo di accesso" abilmente camuffato, che fino al 1476 portava alla camera sepolcrale, alta 1,70 m, sotto la quale era stato resa inaccessibile la bara con i resti mortali del Beato Francesco, essendo stata sovrapposta alla teca, avvolta nella gabbia di ferro, tre lastre di travertino, le ultime due unite da calcestruzzo ed incastrate con stanghe di ferro nei muri perimetrali. Si poteva sdraiarsi od inginocchiarsi sul pavimento, senza vedere né toccare i resti mortali di Francesco. In tale data questo cunicolo sarebbe stato però definitivamente chiuso, onde evitare -questa è la versione ufficiale- che la salma venisse trafugata da invasori o da nemici della città, che, come era usanza in quel periodo storico durante le lotte fra comuni rivali, sottraevano alla città soccombente, come prezioso cimelio, le reliquie del Santo patrono. Col passare degli anni si perse conoscenza del luogo esatto(??) della tomba. Solo nel 1806 si decise di aprire il sepolcro, ma, causa l'occupazione napoleonica, si rimandò tutto al 1818, quando venne scoperto "un sarcofago" protetto da alcune sbarre di ferro. Dopo la scoperta, nel 1822, sotto la direzione dell’architetto Belli, si scavò nella roccia, realizzando intorno alla tomba una vera cripta in stile neoclassico, poi abbattuta perché in contrasto con lo stile romanico della chiesa. La sistemazione attuale del vano, opera dell'architetto Ugo Tarchi, fu attuata tra il 1926 e il 1932. Su questo avvenimento le versioni degli storici più qualificati sono contrastanti e abbiamo deciso di dedicare un capitolo specifico ai "misteri" che nasconde la strana e inconsueta "tumulazione del corpo" di San Francesco e l’incredibile "silenzio" sul luogo dove riposavano le sue spoglie mortali, mantenuto segretissimo per tutto questo lunghissimo tempo. Si vorrebbe infatti cercare di comprendere quali furono "i reali motivi", che indussero frate Elia a compiere un gesto di tale portata, con il pieno consenso dei 24 generali, che governavano la città di Assisi, e dello stesso Papa Gregorio IX, anch’egli amico personale, gran estimatore di Francesco e difensore dell’Ordine dei frati minori, lasciato fuori inopinatamente dalla porta. In effetti, il Pontefice, Gregorio IX, dopo il primo comprensibile disappunto per questo atto apparentemente ingiustificabile, che lo aveva portato a chiedere, a fronte dell’immenso scandalo scoppiato, la punizione delle Autorità comunali e ad interdire "a divinis" la Basilica, sentite le ragioni di frate Elia, improvvisamente si placò, come pure l’intera Curia e tutti gli irritatissimi rappresentanti delle più importanti Corti europee -il Gotha della società europea- presenti alla cerimonia, che nulla ebbero più da eccepire. Ma la cosa che lascia veramente sconcertati è il comportamento successivo, una volta placatisi gli animi. Non si riesce effettivamente a comprendere perché mai nessuno per seicento anni si sia chiesta la ragione, non tanto del gesto di frate Elia, fatto letteralmente sparire dalla storia come il corpo del Beato Francesco, ma di questo strano ed inaspettato cambiamento di Gregorio IX e dei suoi successori, che avallarono e rispettarono sempre questa decisione fino al 1818. Gregorio IX e pochissimi altri dovevano quindi essere stati messi segretamente a parte del nascondiglio del corpo e come fosse possibile raggiungerlo. Ciò di cui il papa è rimasto però sicuramente all’oscuro riguarda il come era effettivamente avvenuta la cerimonia di traslazione all’interno della cripta. In quell’angusto spazio scelto per la sepoltura, una volta fatta passare la salma attraverso lo stretto cunicolo, o , come è più probabile,calatolo dall'alto già ingabbiato,frate Elia, restato con pochi frati scelti come "guardiani della soglia", dovette seguire un preciso cerimoniale massonico; troppi sono infatti gli indizi e i messaggi simbolici che confermano la Sua appartenenza all’Ordine dei Muratori. Egli pose infatti intorno alla sacre reliquie una serie di oggetti simbolici in numero di "dodici", seguendo un preciso e antichissimo rituale, appreso probabilmente durante il suo soggiorno in Egitto ed in Siria. Pensiamo che abbia assunto a tutti gli effetti il ruolo del Gran Sacerdote dell’antico Egitto, a cui, unico, spettava il compito di porre intorno alla mummia del Faraone gli oggetti scelti per prepararlo al viaggio verso l’oltretomba. Questi oggetti sono stati ritrovati e recuperati solo nel 1818 all’apertura della tomba, autorizzata in via non ufficiale dal Papa, ma non sono stati assolutamente "compresi" nelo loro e profondo significato simbolico. Gli oggetti ritrovati sono stati i ritenuti offerte di fedeli introdotte, dopo la tumulazione, facendoli passare attraverso i piccoli fori della grata superiore , che copriva la teca di travertino aperta. l'unico che può averli messi è Frate Elia, alchimista, > vedi il capitolo CODEX FRATE ELIA < che non li ha lasciati come ricordi di oggetti appartenuti al Santo, ma crediamo abbia voluto dare ad ognuno in presiso significato esoterico
> la pietra angolare?
> le dodici monete d'argento?
> l'anello con Minerva?
> la coroncina di 12 grani di ambra e 17 di ebano?
Alcuni di essi erano custoditi fino al 1978 Roma nella Basilica dei SS XII Apostoli, ma, come al solito, nessuno fa il benché minimo cenno né alla loro natura, né tanto meno alla posizione in cui erano stati diligentemente posti da frate Elia intorno e sotto il corpo, come "la pietra angolare", su cui si ritiene poggiasse il capo del Santo, pietra che, unitamente alle 11 (+ 1 ?) monete d'argento ed una statuetta d'argento, sono custoditi in una teca nella "Cappella delle Reliquie" realizzata nella Basilica Inferiore, utilizzata, in origine, da "sala capitolare" del Convento. Tra gli oggetti ritrovati figuravano anche 11+1 monete d’argento:
> Tre furono individuate subito nel dicembre del 1818, perchè poste in evidenza sul fianco sinistro
> Otto vennero recuperate al momento di estrarre le ossa e la polvere che le ricopriva.
>la dodicesima fu individuata solo dopo due anni dalla scoperta e dall'apertura del sarcofago.
Riesaminando infatti i frantumi delle ossa di San Francesco il 15 novembre 1820 i periti trovarono anche quest' ultima monetina, che non risulta esposta nelle teca, come le altre undici e che non si sa dove sia finita (Vedi Isidoro Gatti: " La tomba di San Francesco nei secoli" pag.267, nota 140. Dal libro edito dalla Casa editrice francescana sono state tratte le immagini delle 11 monete e della tomba). 12 monete, lo stesso numero dei 12 acini d’ambra ritrovati insieme ai 17 chicchi d’ebano,che formavano una coroncina, ma dai resoconti non si sa quale fosse la ripartizione di questi 29 grani e quale significato simbolico avesse voluto darle frate Elia. Per quanto riguarda la coroncina sorprende che non si sia mai ricercata l'effettiva disposizione dei 29 grani e quale fosse lo scopo e l'effettivo utilizzo? Potrebbe essere un piccolo rosario o un Kimbalion islamico, che normalmente ha 33 grani e non 29. Nel capitolo > CODEX FRATE ELIA < abbiamo cecato di fornire possibile interpretazione del significato simbolico dell'anello di Francesco, che non è dato sapere se lo indossava in vita o è stato posto ai suoi piedi da frate Elia al momento della tumulazione, insieme alle monete d'argento,alla coroncina ed alla pietra angolare ,per lasciare ai posteri un messaggio criptato Fino ad oggi i posteri non se lo sono ancora chiesto a duecento anni dal rirtrovamento. L’anello -dicono- "sia andato perduto", come i grani della coroncina e tutti gli appunti di frate Elia, in cui molto probabilmente c'era la spiegazione di questo rituale e del significato simbolico e mistico di ognuno di questi oggetti legati a qualche culto misterico. E' un segreto, che - come si suol dire- si è portato nella tomba. Terminata la cerimonia, che deve aver richiesto non poco tempo, mentre all’esterno la folla inferocita inveiva contro frate Elia e gli armigeri posti a difesa del portale, provvide ad occultare l’entrata del cunicolo, camuffandola così bene che ci vollero anni per individuarla. Solo nel 1818 il cunicolo fu riaperto e la salma fu esaminata. La ricognizione riconobbe, nel 1820, l’identità del corpo del Santo. La cosa che lascia sinceramente perplessi, per non dire sconcertati, è la passiva acquiescenza e il rispetto della decisione di Frate Elia, avallata da tutti i Papi, e il fatto che questa si sia protratta per quasi 600 anni, senza che alcun Papa si facesse promotore di scavi per recuperare le spoglie mortali di San Francesco, soprattutto dopo che frate Elia era stato costretto a dimettersi da Vicario generale dell’Ordine dei Frati Minori nel 1239 e avesse lasciato definitivamente Assisi. La Guida spirituale dell'Ordine dei Frati Minori fu infatti costretta non solo a lasciare la carica di Vicario Generale, decretata nel 1239 nel Capitolo generale che si tenne a Roma per la Pentecoste di quell'anno, ma tutti i suoi scritti e appunti furono meticolosamente raccolti e distrutti con una puntigliosità degna del peggior Giordano Bruno, onde non lasciar di lui la benché minima traccia. Alla scomunica e all'allontanamento coatto da Assisi, seguì infatti la distruzione sistematica dei suoi archivi segreti. Furono persino strappati dagli antichi registri del Sacro Convento di Assisi i fogli che si riferivano alla Sua persona e inoltre andò "perduto" il registro dove frate Illuminato segnava le lettere che frate Elia riceveva e spediva: in pratica, fu tutto appositamente e faziosamente distrutto. Ma la cosa strana è che frate Elia e i maestri comacini, sembra abbiano seguito l’esempio dei sacerdoti egiziani, predisponendo un locale, in cui avevano riposto "un sarcofago", che avrebbe accolto, come avveniva appunto per i faraoni, il corpo del Santo, camuffandone l’accesso. Alla tomba si poteva accedere attraverso un cunicolo segreto, dove la salma sarebbe rimasta nascosta e preservata per oltre 600 anni, come è avvenuto per la Tomba del Faraone Sethi I, che era stata pefettamente camuffata, nascondendola in una seconda camera mortuaria, ingannando così i profantori, che si fermavano alla prima non pensando, una volta scoperto il cunicolo di accesso, che ce ne fosse un'altra > quella vera. Né frate Elia, né i maestri comacini rivelarono mai il segreto, né tanto meno coloro che avevano cercato e distrutto i suoi appunti, proprio perché ne erano venuti a conoscenza, e forse affinché, data la scomunica e l’allontanamento di Elia, non trapelasse mai la volontà di Gregorio IX, che a posteriori aveva condiviso e compreso i motivi che lo avevano spinto a compiere questo apparente insano gesto. Non si spiegherebbe altrimenti "il silenzio assoluto" sull’intera vicenda e il riserbo sicuramente "consigliato" anche ai suoi successori, i quali ne venivano puntualmente informati all’atto dell’elevazione al soglio pontificio, rispettandolo ed imponendolo a loro volta. E che tale fosse la questione ne dà appunto un’indiretta conferma la decisone del 1442 di chiudere definitivamente l’accesso al cunicolo, che impedì per altri 400 anni che si potesse accedere alla tomba nemmeno per caso. Sarebbe infatti veramente troppo semplicistico pensare che frate Elia e gli abili maestri costruttori della Basilica fossero riusciti a camuffare perfettamente la bocca dell’antro e a nascondere il corpo così bene da renderne impossibile il ritrovamento. Né si può sostenere che frate Elia, il quale, pur avendo a più riprese dimostrato di possedere capacità taumaturgiche e divinatorie, tanto da predire allo stesso Francesco l’approssimarsi della morte, prevista entro due anni, avesse particolari poteri occulti da creare intorno al nascondiglio, dove giacevano le spoglie del Santo, una cortina invisibile e insuperabile intorno al sito dove era stato rinchiuso, rendendo inutili e vani i continui e disperati tentativi dei "non addetti ai lavori" di scoprire dove era stato nascosto. Solo il Vaticano, come è sempre stata sua prassi costante, deve aver bloccato scientemente ogni informazione e fatto in modo che l'argomento della sepoltura di San Francesco non venisse più toccato né prima, né dopo il ritrovamento dei suoi resti mortali. Ancora oggi è difficilissimo reperire precise informazioni al riguardo, restando l’incredibile e importantissimo avvenimento da tutti minimizzato e volutamente sottovalutato, come è del resto avvenuto puntualmente per "il segreto dei tre >888<" e per "Celestino V", fatto passare lungo altrettanti secoli per un inetto e un incapace. Molte spiegazioni tramandateci non hanno infatti alcuna logica apparente e gli avvenimenti appaiono volutamente distorti e manomessi. Ma forse fanno comprendere a posteriori l’accanimento con il quale questi incredibili accadimenti siano stati minimizzati e sottaciuti e la figura di frate Elia camuffata e svilita, facendo in modo che sparisse qualsiasi suo scritto e fossero scientificamente e minuziosamente distrutti anche dei semplici appunti o registrazioni.
Cortona: Basilica. Interno con navata ortogonale Reliquie esposte all'interno del museo Ma ciò che non si è riuscìti a far sparire sono "tre reliquie" che frate Elia si era portato via lasciando Assisi per rifugiarsi in terra toscana: un cuscino di elegantissima e ricca tessitura, un evangelario e un Saio, reliquie per anni custodite personalmente e offerte, prima di morire nel 1253, ai fraticelli di Cortona, dove egli aveva fatto costruire un'altra Basilica dedicata a San Francesco. Indizi che confermano non solo i strettissimi legami spirituali che univano i due frati, ma aprono uno squarcio alla verità dei fatti e alle motivazioni che avevano indotto frate Elia a preservare il più a lungo possibile "la reliquia" più importante. Nel 2003, in occasione dei settecentocinquanta anni dalla morte di frate Elia da Cortona, se ne è avuta un’indiretta, ma concreta conferma. La Provincia toscana dei frati minori conventuali ha disposto il restauro e la riapertura della chiesa e del convento di San Francesco a Cortona per poi organizzare una serie di iniziative culturali e spirituali, che hanno compreso lo studio scientifico delle reliquie della Chiesa cortonese, cioè dei tre oggetti che la tradizione vuole che frate Elia abbia portato sempre con sé fino alla morte. Il fine più importante di queste ricerche è stato ribadire il legame intimo e profondo del frate aretino con san Francesco e riabilitare la figura di padre Elia, come ha affermato il padre conventuale, Fra Antonio:
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