martedì 13 settembre 2016

La grandezza eterna di Napoli: fra sapienza, mistero e l'onnipresenza della morte come fonte di rigenerazione

Matteo Palumbo: "Napoli è un enigma che non ha risposte"

Docente di Letteratura italiana alla Federico II, è considerato l'erede di Battaglia e Mazzacurati. Legato a Castellammare, ha grande considerazione per i giovani allievi: "Sono migliori di me"
di BIANCA DE FAZIO

11 settembre 2016
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Matteo Palumbo "LE tappe della mia vita professionale e accademica sono state imposte realmente dal caso, o anche da persone che hanno deciso per me. Che hanno "scelto" per me questo mestiere, i suoi indirizzi, mentre io assistevo agli eventi, o ne ero protagonista, senza sapere dove mi avrebbero portato". Con un distacco che non esibisce suggestioni filosofiche, ma un incedere prudente, cauto, mai aggressivo, nel grande e misterioso gioco della vita. Che ora è al giro di boa del pensionamento, che Matteo Palumbo, docente di Letteratura italiana alla Federico II, erede di Salvatore Battaglia e Giancarlo Mazzacurati, il più europeo degli italianisti di casa nostra, interpreta come "un rito di passaggio". Nel suo studio, nel dipartimento di Studi umanistici a Porta di Massa, quello che egli stesso definisce "un buen retiro", Palumbo che è sempre stato lontano dalla scena pubblica - accetta con imbarazzo intervista e flash del fotografo, ma non si sottrae.

Professore, dove porta questo 'rito di passaggio'?
"Porta ad un'altra condizione, ad un altro tempo, né migliore né peggiore di quello vissuto sin qui. Semplicemente diverso. Non c'è un inferno in cui si precipita finita la carriera universitaria, né un paradiso a lungo agognato. L'importante è non avere rimpianti".

Neppure uno?
"No. Per Spinoza le due passioni tristi erano il risentimento ed il rimpianto. Ecco, nessuna delle due mi appartiene. Ho fatto di volta in volta quello che dovevo fare. E sono stati tutti doni della vita. Gocce d'oro che porto con me come un tesoro, le conservo, mi accompagnano, stanno nelle mia memoria. È un distacco senza traumi quello dall'università. Ho una mia personale ricetta per renderlo lieto: riconoscermi nella generazione che viene dopo di me".

"Tutte le persone care, tutti i più giovani studiosi che sono migliori di me. Questa consapevolezza mi dà felicità. Studiosi come Giancarlo Alfano e Andrea Mazzucchi faranno meglio di quanto abbia fatto io le cose per le quali ho vissuto. Sono persone di cui mi sento orgoglioso. Avere la consapevolezza che sono migliori di me mi offre il senso di un passaggio gioioso. E non c'è un grammo di retorica nelle mie parole".

Finita l'esperienza universitaria cederà alle lusinghe della politica?
"No, per la politica non sono tagliato. Però sì, ci hanno provato a tirarmi dentro. A Castellammare di Stabia, la mia città, più volte mi hanno invitato a candidarmi. Non fa per me. La mia vita è lo studio, l'insegnamento, poi la passione per il cinema, per lo sport - gioco ancora a tennis - per i viaggi".

Ma i suoi viaggi non contemplano Paesi esotici.
"La mia storia è nelle città dell'Occidente. Non vado oltre. Un Occidente che si ferma a New York, e non contempla il resto dell'America, se non il Canada, che è l'America dal volto umano".

E Napoli?
"Napoli è stato il più entusiasmante dei viaggi. Qui, in questa università, ho incontrato persone di grandissima qualità. Salvatore Battaglia, Giancarlo Mazzacurati, Alberto Varvaro, Francesco Bruni, Mario Del Treppo, Giorgio Fulco. Dove trovavi, altrove, queste intelligenze? Le loro lezioni erano aperture di mondi. Ed aprire mondi è stato anche il mio tentativo, studiando ed insegnando. Un bel corso è quello in cui inventi delle traiettorie, fai nascere idee da confrontare".

Professore, ma Napoli?
"Ah, sì, Napoli. Una scheggia permanente dentro ogni idea di progresso positivista. Napoli ti ricorda che c'è la morte. Te lo ricorda di continuo. Ed esibisce l'anima tremenda, il dolore, le tenebre. Una scheggia che rende impossibile la linea retta; è la città dei vicoli, dei Tribunali, delle strade che deviano dalla linea retta. La città di un enigma senza risposta, come ci ha rivelato anche la grande letteratura napoletana. O i film di Mario Martone. Penso a 'Teatro di guerra', a 'L'amore molesto', a 'Il giovane favoloso'. Film che ci hanno fatto vagabondare dentro una città in cui la vita è strozzata, aggredita. È il motivo per cui qui, a Napoli, un sorriso può essere più grande che altrove, perché è un frammento strappato al dolore. Solo qui Caravaggio avrebbe potuto dipingere Le Sette opere di Misericordia".

La finestra del suo studio affaccia sul porto.
"No, guardi bene: oltre il porto, oltre il mare, c'è Castellammare. La finestra affaccia sulle mie radici. Ormai vivo a Napoli. Però lì ci sono ancora alcune delle persone che hanno imposto la direzione alla mia vita. Mio fratello, ad esempio. Più grande di me. Medico. Un pozzo di scienza, il primo che mi abbia messo tra le mani libri importanti. Lui leggeva molto, io approfittavo della sua biblioteca. E quando lessi 'Mimesis', al liceo, i miei professori neppure sapevano chi fosse Auerbach: lo citai e pensarono avessi sbagliato. Anche lì, il caso e mio fratello hanno deciso per me che dovevo scoprire la letteratura".

E dopo suo fratello?
"Vittorio Russo. Io mi laureai con Salvatore Battaglia, preparai la tesi su Svevo con Russo. Il giorno della laurea, uno dei momenti più emozionanti della mia vita, in tanti mi fecero i complimenti. Cominciai ad insegnare in un liceo
 di Venosa e mi sembrò di trovare l'Eldorado: finalmente guadagnavo. Credevo che quello sarebbe stato il mio mondo, presente e futuro. Invece mi scrisse Vittorio Russo, mi invitò ad un colloquio per una borsa di studio. Mi presentai. In commissione c'erano Russo, Mario Santoro e Alberto Varvaro, che mi tenne sotto pressione. Alla fine rinunciò a dare la borsa di studio ad una sua allieva, e mi preferì a lei. Ecco, questi maestri hanno scelto per me".
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© Riproduzione riservata11 settembre 2016


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