domenica 31 luglio 2016

Il concetto di reincarnazione presso i Catari

Reincarnazione dei Catari


La "croce occitana", simbolo del catarismo
Immagine dal sito https://upload.wikimedia.org/

Stefano Beverini

Tutto sommato, poco è stato scritto sui Catari, in proporzione, per esempio, a quanto divulgato sui Templari. Entrambi questi movimenti religiosi furono accomunati da una profonda tradizione esoterica e da una sorte tragica. Qualche elemento sembra sia anche affiorato “postumo” attraverso una medium e le reminiscenze di alcune persone sulle loro esistenze anteriori. La vicenda appare alquanto complessa e incredibile; ma, prima di esporla, ricordiamoci di alcuni cenni storici utili per comprenderla.
Dal greco Katharós, che significa puro, deriva il nome Catari. Nel medioevo essi si diffusero nell'Europa centrale, tra i secoli XI e XIII. Nella Francia meridionale, soprattutto a Tolosa e Albi, furono numerosi e presero la denominazione di Albigesi. Subirono molte persecuzioni, fino al genocidio quasi completo. L'ultima roccaforte, quella di Montségur, cadde il 16 marzo 1244. Uno dei pretesti addotti per fomentare le ultime vessazioni fu l'assassinio di due inquisitori, nel 1242, ad Avignone.
Degli eventi paranormali collegati a questa drammatica conclusione, scrisse lo psichiatra inglese Arthur Guirdham alla fine degli anni Sessanta, nel suo libro The Cathars and reincarnation. Una sua paziente descrisse una quantità cospicua di particolari relativi ai Catari, ricavata dai propri sogni. All'epoca delle "scoperte oniriche" pare che la maggior parte dei dati emersi non fosse ancora conosciuta dagli studiosi. In seguito i ragguagli sarebbero stati controllati e confermati.
La signora Smith - è la menzionata paziente del dottor Guirdham - durante l'adolescenza iniziò ad avere dei sogni vividi, collegati alla sua presumibile esistenza medioevale. Sognava di essere stata una fanciulla di umili origini che viveva nei pressi di Tolosa. Fuggita di casa, per le violente percosse del padre, andò a vivere con il suo fidanzato, Roger de Grisolles. Poi la signora Smith sognò un uomo che, tornando dal luogo del delitto, si vantò di esserne stato l'autore. Egli si chiamava Pierre de Mazerolles. Inoltre, la signora, si ricordava del proprio nome assunto nel sogno: nella sua vita medioevale si sarebbe chiamata Puerilia. Ricordava anche particolari raccapriccianti della sua tragica fine sul rogo. Arthur Guirdham riscontrò quanto gli aveva narrato la sua paziente. Identificò sia Roger de Grisolles, sia Pierre de Mazerolles; quest'ultimo fu effettivamente coinvolto nell'assassinio dei due Inquisitori, ad Avignone.
Ben presto il dottor Guirdham fu immerso in un turbinio di vicende che riguardavano i Catari di sette secoli prima. Il personaggio chiave di questa nuova serie di esperienze era la signorina Mills, persona attivissima ed estroversa. Essa, pur non sapendo nulla sui Catari, sin dall'età di cinque anni aveva due sogni ricorrenti. Nel primo fuggiva da un castello di stile medioevale, situato sulla sommità di un colle (verrà poi riconosciuto come Montségur). Nel secondo sognava di essere trascinata con altre persone verso un mucchio di fascine, e di essere colpita con una torcia ardente, da un monaco. Già dall'infanzia aveva orrore del fuoco. All'età di sette anni ebbe una reazione tale da apparire isterica, di fronte a un edificio in fiamme. Temeva inspiegabilmente anche il suono delle trombe: quando passavano le bande musicali fuggiva via tappandosi le orecchie. La signorina Mills chiese al dottor Guirdham di visitarla, per un fastidioso dolore al fianco sinistro. Aveva una serie di vescichette, come provocate da un'ustione. Però non contenevano alcun liquido, ed erano quasi solide. Corrispondevano alla traccia lasciata dalla torcia del sogno!
In seguito cominciarono le manifestazioni di tipo medianico. Inizialmente chiaroudienza: le parole venivano percepite non solo in stato di dormiveglia, ma anche di piena lucidità. La voce, anzi le voci parlavano ripetutamente nel corso delle notti, invitando lo studioso a divulgare la conoscenza del catarismo. Presto la fenomenologia divenne più interessante e complessa. La signorina Mills teneva una matita e un taccuino sul comodino. Al risveglio trovava dei messaggi: scrittura diretta o automatica? Probabilmente la seconda, perché la medium, riconoscendo la propria calligrafia, ritenne di aver scritto in stato alterato di coscienza. Il contenuto dei messaggi era vario. Alcuni erano anche di natura filosofica ed esoterica. “La verità nasce da vibrazioni. Non si può conoscere semplicemente pensandola, essa deve essere vissuta.” Poi le voci si alternarono ai messaggi scritti - anche in lingue diverse - e giunsero notizie circostanziate sugli Albigesi.
Guirdham accertò la veridicità dei dati, non senza fatica, dopo aver compulsato vari documenti e testi difficilmente reperibili. Egli era sconcertato. Arrivò poi dall'ignoto una successione di nomi: alcuni riguardavano località geografiche, ma la maggior parte si riferivano a persone con dei legami tra loro. Erano ignoti Catari non citati nei libri di storia, ma registrati negli archivi dell'Inquisizione, come vedremo fra poco.
Un giorno la medium si destò con un intenso dolore alle spalle e ai polsi. Era il 16 marzo, il giorno del massacro di Montségur. Il medico si recò quindi in Francia, dove riuscì a parlare con Duvernoy (che viene da lui citato come uno dei maggiori studiosi di storia catara). Venne così a sapere che gli eretici salirono sul patibolo con i polsi saldamente legati dietro la schiena, con catene. Si ipotizzò l'identità medioevale della Mills: sarebbe stata Esclarmonde de Perella, figlia di Raymond, signore di Montségur.
Una notte, sul taccuino della medium, apparve la scritta “609 Montserver”. La sera stessa pervenne un messaggio straordinario: un verbale dell'Inquisizione in francese antico. I verbali di tali processi non erano mai stati pubblicati - a parte qualche stralcio - e soltanto gli specialisti ne conoscevano l'esistenza. Duvernoy fu di preziosissimo aiuto e tradusse a Guirdham alcuni brani del foglio 609, conservato negli archivi di Tolosa. In questo foglio si parlava di quel Pierre de Mazerolles, coinvolto nell'assassinio dei due Inquisitori. Vi erano anche notizie particolareggiate sulla famiglia Montserver, una componente della quale, Braida, avrà un ruolo importante in questa storia.



Sulle influenze filosofiche e religiose che avrebbero determinato il movimento cataro, esistono numerose divergenze d'opinione. Le indicazioni medianiche della signorina Mills avrebbero rivelato la natura più intima del catarismo, che avrebbe affondato le proprie radici nel cristianesimo primitivo. A tale proposito ricordo che, per alcuni autori il Cristianesimo delle origini riveste particolari significati, come il valore iniziatico attribuitogli dal Guénon.
Tornando alla sequela di nomi provenienti dall'ignoto, un esempio è particolarmente interessante: Brunasendis, Pons e Narbona. Brunasendis deriva dalla crasi dei due nomi Brune e Arsendis. Queste erano le mogli dei due militari Pons e Narbona. Le due coppie furono arse insieme sul rogo. Inspiegabilmente molti militari condivisero le sorti degli eretici e perirono con loro rifiutando la libertà.
Ma il mistero che ha destato più interesse è quello del trafugamento, per protezione, del tesoro degli Albigesi attuato da alcuni Parfaits (ovvero gli iniziati), che riuscirono ad abbandonare Montségur la notte precedente il massacro. Secondo le comunicazioni medianiche ricevute, il tesoro sarebbe stato composto di libri rarissimi e molto antichi. Chissà se, come è stato asserito per i Templari, anche i Catari fossero depositari di conoscenze magiche e scientifiche attribuite a civiltà remote: ma questa è solo una supposizione.
Poi la Mills ebbe il fenomeno clou. Una notte fu svegliata dall'abbaiare del suo cane. Apparve una vecchia signora vestita con una tunica blu scura, ai piedi del letto. Come in alcune mie esperienze al castello della Rotta, narrate in altre mie pubblicazioni, proprio l'abbaiare dei cani annunciava le apparizioni. L'anziana signora sarebbe stata Braida de Montserver, una sacerdotessa catara. La medium, che aveva già dato prova di xenoglossia, non conosceva l'idioma di Braida, eppure si comprendevano perfettamente. La comunicante profuse insegnamenti pratici riguardanti l'uso di erbe e bacche, nonché particolari tecniche pranoterapeutiche.
Sul fantasma della donna spiccava una cintura, con un medaglione sul quale era incisa una croce. Era il simbolo comparso, alcuni mesi prima, nei disegni automatici della Mills: tale emblema avrebbe indicato l'appartenenza di una persona alla classe dei guaritori. Infatti i Parfaits ricevevano il battesimo spirituale - detto consolamentum - mediante l'imposizione delle mani (a differenza dei semplici credenti che ottenevano il consolamentum solo in punto di morte). Ovviamente questi rituali erano diretti non solo al fisico, ma soprattutto ai corpi più "sottili". La rediviva Esclarmonde ricevette inoltre insegnamenti filosofici ed esoterici da un'entità maschile: Guilhabert de Castres. Si manifestò anche un certo Bertrand Marty, uno dei principali personaggi di Montségur, il quale affermò di essere stato la reincarnazione del padre della Mills, nella vita - già conclusa - del ventesimo secolo. Sembra, addirittura, che entrambi - Guilhabert e Bertrand - siano apparsi alla signorina, materializzandosi.
Anche il terrore per il suono di tromba trovò una risposta; il ricordo affiorò repentino: erano le trombe che suonarono quando le truppe catare fallirono la loro ultima, disperata controffensiva. Poi emersero altri protagonisti del periodo di Montségur. La prima fu Betty, compagna di scuola della Mills, che morì ancora giovane. La madre ritrovò un quaderno, scritto da Betty quando era ancora una bambina, pieno di notizie e disegni particolareggiati sui Catari che non poteva aver appreso sui testi scolastici. La Mills restò comprensibilmente affranta, ma intervenne Braida a consolarla. L'entità disse che Betty era vegliata da un Parfait. Sembra infatti che i Catari, come i monaci tibetani, fossero soliti vegliare le salme per aiutarne lo spirito nel trapasso. Anche Jane, la madre di Betty avrebbe fatto parte del "gruppo cataro redivivo", insieme a Kathleen, Penelope e suo marito Jack: in tutti pian piano emersero intricate serie di ricordi, che collegavano la nuova vita con quella precedente. Erano come gli anelli di una catena.
Oggi, a distanza di oltre sette secoli, nonostante gli immani massacri, la fede catara non è stata completamente cancellata. Nella Francia meridionale, infatti, esiste un movimento neocataro continuatore delle antiche dottrine... 

Bibliografia: Baigent, M. - Leigh, R. - Lincoln, H. Il Santo Graal, Milano, Mondadori, 1982. Guirdham, A. Noi siamo un altro, Torino, MEB, 1977. Sedir, P. Storia e dottrina dei Rosacroce, Genova, Dioscuri, 1988. Tavolaro, A. - Castel del Montee Il Santo Graal, Bari, Laterza, 1988. Wilson, C. Strani poteri, Roma, Astrolabio, 1976.

www.beverini.it/giornalismo/servizi/catari.rtf

sabato 30 luglio 2016

Paesaggi italiani influenzati dai fantasmi

I mille paesi d'Italia abitati dai fantasmi

Viaggio negli oltre mille villaggi abbandonati perché la popolazione li crede infestati da spettri. Un inventario raccolto in un documentario presentato alla Biennale del paesaggio.

di Paolo Rumiz


Il vecchio Tonino Guerra sapeva che vicino a casa sua, a Marecchia in Romagna, c'era un casolare dove sessant'anni prima era passato Ezra Pound. Lo scrittore ci andò, la trovò in rovina, ma provò a entrare lo stesso. L'idea di gettare la propria ombra su quei muri per farli rivivere lo attirava irresistibilmente. Il pavimento della prima stanza era sfondato, riuscì a passare rasente ai muri. La porta della seconda era aperta e dentro si vedeva chiaramente una sedia. Ebbene, su quella sedia, racconta Guerra, c'era un'ombra. Il vecchio Pound, il poeta, seduto di spalle. Inconfondibilmente lui. Le case abbandonate hanno spesso uno spettro che le abita. E poiché l'Italia ha più case abbandonate di qualsiasi altro paese del Mediterraneo - un migliaio di villaggi, più case sparse, che potrebbero contenere la popolazione di Roma e Milano insieme - è probabile che qui si registri anche la massima densità di spettri d'Europa. Bambini che gridano in fondo ai pozzi, ombre di donne abbandonate nel solaio, partigiani torturati, vittime di fatti di sangue. Storie vere, ma più spesso inventate, o trasfigurate, per motivare un abbandono recente, altrimenti inspiegabile.

Che pensare se non storie lugubri davanti a una villa piena di ragnatele che contiene ancora armadi, posaterie, quadri, bicchieri, lettere d'amore? Che dire di un paese abitato da cani e pipistrelli dove la vita sembra essersi interrotta per un maleficio, in assenza di catastrofi come guerre, incendi o terremoti? Parla di questo il documentario
"Case abbandonate" di Alessandro Scillitani, che stasera sarà proiettato in anteprima al cinema "Al Corso" di Reggio Emilia, nell'ambito della Biennale del paesaggio. Non un semplice inventario di rovine, ma una galleria di leggende, racconti noir e apparizioni spesso sinistre che abitano il paesaggio dell'italica incuria.
A Paralup in Valle Stura, Piemonte, frazione che si tenta di far rivivere come luogo della memoria partigiana, non c'è solo l'ombra del comandante Duccio Galimberti, ma anche - racconta Antonella Tarpino - la voce di un cantore cieco come Omero che saliva lassù fino agli anni Sessanta, quelli della grande fuga in fabbrica. Esplorando poi la storia di Villa Destefanis nel Vercellese lo scrittore Danilo Arona ha trovato storie da "Poltergeist" (un cimitero di soldati austriaci massacrati dai contadini nelle fondamenta) narrate per motivare eventi terribili registrati dalle cronache, il custode della casa che stermina la propria famiglia e un suicidio dal balcone.

A Casacca nel Parmigiano, territorio di messe nere e riti occulti, si parla di bare scoperchiate nel cimitero, e anche lì l'abbandono è messo in relazione a una tragedia, l'amore proibito di un prete e una suora dal quale sarebbe nato un bambino poi nascosto, sepolto o murato vivo. C'è anche un pozzo, in paese, dove affermano si possa sentire il canto di una bambina caduta lì dentro. Storie probabilmente false, ma utili a razionalizzare l'inspiegabile e talvolta l'indicibile: la fuga in massa delle persone, e poi la spoliazione delle cose per mano di vandali e antiquari.
A Reneuzzi, paese fantasma da Dario Argento (vedi la "villa del bambino urlante" a Torino) sugli impervi monti liguri, l'abbandono è legato a un fatto reale: la storia di Davide che vede partire Mariuccia per la pianura, capisce di perderla per sempre e la uccide, poi si dà alla latitanza. L'ombra dell'omicida terrorizza i pochi rimasti, che fuggono a valle lasciando il villaggio deserto, e non importa se qualche settimana dopo il corpo di Davide suicida sarà trovato decomposto nel bosco. Di Villa Clara a Bologna si dice che la figliastra del padrone - nobile famiglia Alessandri - sarebbe stata murata dopo una tresca proibita con un sottoposto, mentre a Villa Pastore nell'Alessandrino un fantasma di donna suona il piano tutte le notti.

In Romagna l'addensamento di visioni è impressionante, anche perché si tratta spesso di abbandoni di pianura, i più spettrali. Come villa Boccaccini dalle parti di Comacchio, dove Pupi Avati - in quella che definisce una "campagna malata, nebbiosa, inquietante" - ha girato "La casa delle finestre che ridono", la storia di un pittore maledetto, specializzato nel ritrarre agonie. Anche lì segnali del terzo tipo, una lampada che si accende a una finestra, la testa di un diavolo affrescata sotto l'immagine di un santo, e ovunque l'impressione di entrare in uno spazio a-temporale, quasi subacqueo, come se l'abbandono risalisse a mille anni fa, non quaranta.
E poi l'Abruzzo, con gli spettri di Sperone e Frattura, dove senti ancora la voce di bambini estinti. "Luoghi dove - racconta Romano Camassi dell'Istituto geofisico di Bologna - il terremoto non è mai l'unica causa dell'abbandono". E la Calabria, con l'enigma dei "paesi doppi", come li chiama l'antropologo Vito Teti, quelli che si duplicano sulla costa dopo secoli di resistenza sui monti. Storie dove miseria, 'ndrangheta, emigrazione, frane, brigantaggio e latitanza di criminali si intrecciano a costruire storie poco tranquillizzanti. Come Roghudi, protetta da inestricabile boscaglia, dove tutti ti dicono che è meglio non andare. E dove la sera qualche luce fantasma si accende.

I mille paesi d'Italia abitati dai fantasmi - Repubblica.it

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venerdì 29 luglio 2016

Come con il sangue di San Gennaro, periodicamente si liquefa


Limbadi, il “miracolo” si ripete: si scioglie il sangue di San Pantaleone

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I coaguli contenuti nell’ampolla, conservata nella chiesa della cittadina, durante la messa mattutina si sono sciolti, il 28 07 2016
I grumi di sangue del patrono di Limbadi, San Pantaleone, si sono sciolti. Il “miracolo” anche quest’anno si è ripetuto. I coaguli contenuti nell’ampolla, conservata nella chiesa della cittadina, durante la messa mattutina si sono sciolti assumendo dapprima un colore rossastro, e poi più vivo. Il tutto dinanzi a numerosi fedeli.
Il parroco, don Mario Dell’Acqua, ha scosso l’ampolla, come da tradizione, una sola volta. Al contrario, nel “miracolo” analogo di San Gennaro sono necessari più movimenti affinché si ripeta la “liquefazione”. Numerosi fedeli sono accorsi in pellegrinaggio nella chiesa, dove è riposta l’antica ampolla del santo.

Un traduttore, che lavorò per anni alla San Paolo, che ci ha dato una nuova versione della bibbia

<Ma allora mi chiedo come sia possibile che venga anche solo “chiamato, invocato” in tanti modi così diversi.
Possibile che i sapienti che si rifanno alla stessa radice non sappiano anche solo in che modo lui preferisce essere contattato dai suoi figli?
Perché sinagoghe, chiese cattoliche, templi protestanti, moschee, riti così diversi e incompatibili…?
Perché, ad esempio, per alcuni lui vuole che si mangi la carne di suo figlio e per altri no?
Perché lui, padre amorevole, non interviene per porre fine a tanta confusione tra i suoi figli che ama di un amore infinito?
Chiedo di evitare la solita banale risposta sulla libertà che lui ci lascia: quando Adamo ed Eva hanno deciso in autonomia, lui li ha subito puniti e se non facciamo come dice lui andiamo all’inferno: la libertà decisionale con lui non esiste.
Avrebbe parlato “direttamente” per millenni e ora lascia che i suo figli vivano e si combattano nella confusione più totale: se non vuole le guerre di religione perché non lo dice chiaramente in modo che tutti capiscano?
In sostanza: Dio è in vacanza a rilassarsi in un qualche universo parallelo mentre qui i suoi figli sono divisi su tutto e si ammazzano anche in suo nome? Perché non prende posizione? Perché tace?
C’è o non c’è questo Dio del libro? 😉
(la domanda è ovviamente retorica)>>
Mauro Biglino
“C’è o non c’è questo Dio del libro?” nuovo articolo di Mauro Biglino redazione / 2 mins ago 29 luglio 2016 In questi giorni sento spesso i buonisti affermare che il…
MAUROBIGLINO.IT

Scongiuri, magia, preghiere e maledizioni dagli etruschi ai romani

Scongiuri, magia, preghiere e maledizioni dagli etruschi ai romani
Written by adminArticoliDic 20, 2013
Abbiamo già trattato precedentemente, e sempre in questa sede, di quale fosse l’approccio alla vita civile e alla quotidianità degli etruschi. Ma un detto latino recita: “Indocti discant et ament meminisse periti”, ovvero imparino i non dotti e all’erudito ravvivar la memoria sia gradito.
Il popolo etrusco, all’apparenza così raffinato ed elegante nell’abbigliamento, così imponente e altero nel portamento e nelle insegne del potere, come ci è stato tramandato dagli storici e dall’iconografia sia pittorica sia fittile, era in realtà intimamente fragile, fatalista e incline al pessimismo. Tutto era già scritto e determinato, solo in parte e in modo limitato si poteva modificare il proprio destino ricorrendo ai “presagi”, rigorosamente effettuati con rituali che facevano parte dell’Etrusca Disciplina. Ed ecco che auguri, interpreti del volo degli uccelli, aruspici,interpreti delle viscere animali e fulgurales, interpreti dei fulmini, divennero la classe sacerdotale più richiesta e dominante del mondo etrusco. Le loro “divinazioni” permettevano, in qualche modo, di deviare dalle insidie e dai pericoli della strada già segnata. Tutto dipendeva, ovviamente, dalla capacità di saper cogliere nel modo giusto i segnali inviati dagli dei per volgere a proprio vantaggio le negatività che ogni individuo, prima o poi, trova sul proprio cammino. L’Etrusca Disciplina era la “Bibbia” in cui erano trascritti i sacri rituali della divinazione, ai quali si faceva ricorso non solo nelle occasioni più importanti, come alla vigilia di una battaglia o per l’elezione di un magistrato, o ancora per la fondazione di una città, ecc., ma anche per questioni più banali che riguardavano la quotidianità.
 Tratteremo ora di ciò che è complementare alla divinazione, al comportamento consequenziale di un siffatto modo di concepire il proprio destino: modus vivendi et operandi trasmesso anche al popolo romano, che in fatto di superstizione non era da meno a nessuno.
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Augure
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Cicerone
Il termine superstizione pare sia stato creato da Cicerone che, nel De Natura Deorum, definisce superstizioso chi sacrifica agli dei o prega ossessivamente affinchè i figli gli sopravvivano. Quindi superstizioso è connesso al verbo superstare, cioè sopravvivere, e superstes dà anche origine al termine superstite, nonché a superteste, ovvero testimone, termine usato soprattutto in questioni di leggi e tribunali, perché chi è sopravvissuto ad un fatto, è in grado di narrarlo con veridicità. In seguito, a partire dal III secolo, la parola superstizione cambierà significato, prendendo quello che oggi conosciamo.
Gli etruschi, ad ogni movimento o sussulto involontario fuori norma di esseri umani, animali e anche piante, si prodigavano in formule benefiche o malefiche a seconda dei casi, si munivano di amuleti portafortuna, offrivano ex voto agli dei, recitavano scongiuri e filastrocche allo scopo di allontanare ogni maleficio, e spesso anche il malocchio, dalla propria persona e dai propri cari. La superstizione, insomma, imperava costante e vi era una grande fiducia, in particolar modo nel mondo romano, nella magia e negli incantesimi, nelle formule spesso composte da parole incomprensibili, capaci di sovvertire l’ordine delle cose.
Nel periodo greco romano forme di magia e riti apotropaici furono adottati per allontanare il malocchio o indirizzarlo ad altre persone. Scrive Plinio il Vecchio: “Secondo molti autori le formule hanno la facoltà di cambiare il corso di grandi avvenimenti stabiliti dal fato ed annunciati dai presagi”.L’opera “L’asino d’oro” di Apuleio, in altre parole “Le metamorfosi”, era basato sulla varietà di episodi che avevano un collegamento diretto con la magia. E nell’ottava egloga delle “Bucoliche”, dal titolo Pharmaceutria (La Maga), Virgilio descrive il rituale usato dalla maga per far ritornare Dafni da Amarillide, l’amante abbandonata: “Porta fuori l’acqua e cingi di morbida lana gli altari, brucia verbene oleose e grani d’incenso maschio […] lega i fili di tre diversi colori a tre a tre con tre nodi […] io, intanto, circondo tre volte l’effigie (di Dafni) con tre fili di diverso colore e conduco tre volte l’immagine intorno all’altare. Il dio ama i numeri dispari”. Oltre ai numeri dispari, specialmente il tre e i suoi multipli, il rituale ci conferma che l’incenso e il profumo della verbena erano particolarmente graditi agli dei, queste piante, infatti, venivano adoperate per adornare gli altari nelle cerimonie religiose.
Per i romani portava sventura se un cane nero entrava in casa, una serpe cadeva dal tetto nel cortile, se una trave di casa si spaccava, se si rovesciava vino, olio, acqua; se si incontravano muli carichi di ipposelino, erba che ornava i sepolcri; se un topo rosicchiava un sacco di farina, se un simulacro divino sudava sangue, se dei corvi beccavano l’immagine di un Dio, se i pesci in salamoia, arrostendo, guizzassero come fossero vivi, se un toro in corsa infilava le scale di un caseggiato e si fermava solo al terzo piano.  E ancora, evitavano di sposarsi in certi giorni e in certi mesi; badavano a non varcare la soglia col piede sinistro. Durante il banchetto se a un commensale cadeva in terra del cibo che teneva in mano, il cibo doveva esser subito restituito al convitato che non doveva ripulirlo nè soffiarci sopra. Se il cibo cadeva di mano al Pontefice durante una cena rituale, si riponeva il cibo sulla mensa e si bruciava come sacrificio ai Lari. Era di cattivo augurio che a uno venisse uno starnuto nel momento in cui gli si porgeva il vassoio; l’unico rimedio era che cominciasse subito a mangiare.
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Molti ricorrevano a scongiuri contro la sfortuna, anche personaggi insospettabili, come ci dice Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia”: “Riportano che il dittatore Cesare, dopo una pericolosa caduta da un carro, non appena vi fosse montato sopra, usava sempre ripetere per tre volte un certo scongiuro, per allontanare da sè tale pericolo; cosa che vediamo ancora oggi fare da molti Romani”.
Il potere “magico” delle parole appariva tale da risolvere ogni problema, anche quelli relativi alla salute. Catone scrive che la funzionalità ossea, alterata da una lussazione, poteva essere ripristinata tenendo una canna rotta in mano e recitando la formula: “Huat, huat, huat! Ista pista, sista! Damnabo, damnausta!” Mentre Varrone dichiara di aver tratto dal testo di agronomia dell’etrusco Saserna, la seguente frase che doveva essere cantata a digiuno dal praticante per 27 volte (nove volte tre): “La terra si prenda la malattia, la salute rimanga nei miei piedi”. Dopodichè doveva sputare in terra, gesto ritenuto di grande efficacia, perché la saliva era considerata capace di allontanare demoni e malanni a causa della repulsione che provoca la sua vista. Anche Tibullo scrive: “Pronuncia i carmi (formule magiche) tre volte e tre volte sputa dopo averli pronunciati”. Ancora Plinio il Vecchio aggiunge: “Sputiamo sugli epilettici durante gli attacchi: così rigettiamo il contagio. […] Chiediamo anche venia agli dei di qualche progetto troppo audace sputandoci in grembo; per la stessa ragione è usanza sputare e fare tre volte gli scongiuri tutte le volte che adoperiamo una medicina, potenziandone gli effetti”.
Secondo Plinio, l’ambra era un rimedio contro gonfiori delle tonsille e del collo; l’ametista, come lo smeraldo, preservavano dall’ubriachezza, allontanavano addirittura le tempeste ed erano un antidoto contro i veleni! Mentre l’agata era efficace contro i morsi di ragni e scorpioni.
250px-Superstizione_animaliPer capodanno, come portafortuna, i romani si scambiavano un vaso bianco riempito con datteri, fichi e miele, inghirlandato di foglie d’alloro, e in casa si usava tenere un rametto di ruta per evitare incidenti domestici. All’interno, dietro la porta, si appendeva anche un ferro di cavallo contro la malasorte. Al collo dei bambini, per tenere lontani i demoni col loro suono, si mettevano collanine con medaglioni a sonagli in numero dispari detticrepundia e, sempre come ciondolo, era molto usato anche il corno di corallo. Un altro importante scongiuro era dato dalla raffigurazione, spesso in materiali preziosi, del pugno chiuso, col pollice in alto stretto tra l’indice e il medio, simbolo della vagina e della penetrazione, usata anche per favorire l’amore e le nascite, ma che in seguito divenne solamente un simbolo triviale senza alcuna valenza benefica.
Per liberare le case dagli spettri, una volta all’anno, il 9 di maggio, il pater familias di notte si purificava le mani con l’acqua, lanciava dietro di sé per nove volte delle fave nere dicendo: “con queste fave riscatto me e i miei; ombre dei miei antenati andatevene.” Dopo una nuova purificazione con l’acqua poteva finalmente voltarsi; si pensava, infatti, che i lemures, ovvero le anime dei morti, seguissero l’officiante raccogliendo, senza farsi vedere, le fave, ritenute il loro cibo preferito e per questo usate frequentemente nei riti funebri.
La superstizione, come abbiamo visto, generava scongiuri e un’infinità di preghiere agli dei per ottenere favori e buona sorte. Ecco una serie di suppliche tramandateci dagli storici romani.
O dei e dee, che i mari e le terre abitate, vi prego e scongiuro, deh, quello, che sotto il mio imperio si è compiuto, si compie e si compirà, quello per me, per il popolo e la plebe romana, per i socii e per la nazione latina e per quelli che in terra, in mare e sui fiumi seguono il mio esempio, i miei ordini e i miei auspici, abbia buon esito; e tutto quello voi bene aiutate, con buoni incrementi accrescete; e salvi ed incolumi, vincitori, dopo avere vinto i nemici, adorni di spoglie, carichi di preda e trionfanti meco reduci riportate in patria; concedeteci di punire gli avversari ed i nemici; e quello, che il popolo cartaginese ha cercato di fare contro la nostra città, date a me ed al popolo romano la facoltà di fare contro la città cartaginese, così da dare un esempio.” Scipione l’Africano.
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Scipione l’Africano

Tu Giove, con gli auspici con i quali questa città è stata fondata, fosti stabilito da Romolo che chiamano protettore di questa città e giustamente anche dell’impero, tieni lontani costui e i suoi compagni dai tuoi templi e da quelli degli altri dei, dalle case e dalle mura della città, dalla vita e dai beni di tutti i cittadini e gli uomini avversi ai buoni, nemici e predatori della patria, uniti da un patto di scelleratezze tra di loro e da una nefasta amicizia, punisci vivi e morti con eterni supplizi.”Cicerone.
O dei, se l’avere pietà è cosa vostra, o se mai avete portato l’estremo soccorso a qualcuno ormai nella stessa morte, volgete lo sguardo su me infelice, e, se ho vissuto senza colpa, strappate da me questo morbo rovinoso che insinuandosi, strisciando come un torpore nelle membra, mi ha strappato ogni gioia dal cuore. Ormai non chiedo questo, che ella contraccambi il mio amore, o, cosa che non è possibile, che ella voglia essere casta, sono io che voglio guarire e liberarmi da questa tetra malattia. O dei concedetemi questo in cambio della mia pietas.” Catullo.
Giunone, dea della nascita, accogli i mucchi d’incenso che ti offre con la sua tenera mano la dotta fanciulla. Oggi è tutta tua, per te si è adornata lietamente, per essere bella davanti al tuo focolare. Lei dedica a te i motivi del suo ornamento, dea, e tuttavia c’è qualcuno segreto a cui vuol piacere. Ma tu, dea, sii propizia e nessuno separi gli amanti, ma ti prego, prepara anche al giovane un solido vincolo. Sarà una bella coppia: non c’è nessuna ragazza a cui sia più degno lui di servire, e lei a nessun uomo. […] Acconsenti e vieni, bellissima, col mantello di porpora: tre volte ti offrono, casta dea, vino e focacce…” Tibullo.
O Marte padre, ti prego e ti scongiuro, sii benevolo e propizio a me, alla casa e alla famiglia nostra; in considerazione di ciò ho fatto condurre porci, montoni e tori intorno al campo, alla terra ed al fondo mio; deh, tieni tu lontano, respingi, spazza via i morbi visibili ed invisibili, la sterilità e la devastazione, il maltempo e le bufere.” Catone il Censore.
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Con qualsiasi nome, Iside, con qualsiasi rito, sotto qualunque aspetto è lecito invocarti: concedimi il tuo aiuto nell’ora delle estreme tribolazioni, rinsalda la mia afflitta fortuna, e dopo tante disgrazie che ho sofferto dammi pace e riposo.” Apuleio.
Proteggi il gregge e insieme al gregge i pastori e fuggano i malanni, scacciati dalle mie stalle. Se pascolai in sacro suolo, o sedetti sotto un albero sacro, o una mia pecora ignara brucò erba da una tomba, se entrai in un bosco proibito, e furono dal mio sguardo messe in fuga le ninfe o il dio capro a metà, se la mia falce spogliò d’ombroso ramo una selva sacra, le cui foglie offrii in un cestello a una pecora malata, perdona la mia colpa, e non mi noccia l’aver messo al riparo in un agreste tempio il mio gregge mentre grandinava. […]
Fa’ che possa non vedere le Driadi, né Diana che si bagna, né Fauno quando a mezzogiorno giace sdraiato nei campi. Scaccia lontano le malattie, godano buona salute gli uomini e le greggi, e anch’essi i cani, provvida turba […] Stia lontana l’iniqua fame, e abbondino erbe e fronde, e acque per lavarsi e per bere. […]
Accada quanto io prego, e noi anno per anno offriremo grandi focacce a Pale, signora dei pastori.“ 
Ovidio
Preghiere anonime:
O Vesta, Madre antica e feconda, fai scendere sulla nostra Gens la tua benedizione, che il tuo sacro fuoco bruci anche per noi, come l’hai fatto ardere per Roma. Accogli la nostra offerta fatta col cuore e in cambio concedi alla nostra casa, e alla nostra famiglia con liberti e schiavi, pace e armonia, ricchezza e salute.”
Salve Priapo, Padre fecondo, di orti custode, violatore. Ti invoco, rubizzo, dissipatore, spermatico. Tu che semini la vita. Defloratore, sgomento di vergini, igneo, fallopodo, fugatore di ladri e di uccelli, signore del fico, magmatico. Vieni a noi, possiedici col calore del tuo fuoco, dacci l’ardore che ti pervade, o comburente. Svela i misteri del fallo nascosti dal ricurvo falcetto, ambidestro, flagello di cinedi. Irrumatore, rostro marino, muto, ematico, signore dell’asino, vieni ai nostri santi spasmi. Signore dell’Orgia, sacrifica i nostri atti, vivifica le nostre menti. Osceno, Itifallo, Iectatore, Salvatore!”
Dalle preghiere “ordinarie”, si distinguono le cosiddette supplicationes usate dai romani durante le Guerre Puniche. Dopo il disastro di Canne (216 a.C.), fu deciso di inviare a Delfi, per consultare l’Oracolo di Apollo, lo storico Quinto Fabio Pittore che, al suo ritorno, riferì dovessero essere fatte delle suppliche a carattere espiatorio. Nonostante queste, l’ira degli dei, evidentemente non placata, si manifestò con fatti straordinari: l’anno 214 accaddero prodigi fuori del comune, alcuni incredibili, sicuramente frutto della fantasia popolare, tuttavia suscettibili di essere raccontati. Si parlava di corvi che avevano nidificato nel tempio di Giunone Sospita a Lanuvio, di una palma verde arsa in Puglia, di uno stagno di sangue uscito dal Mincio a Mantova, di creta piovuta a Cales, di sangue piovuto a Roma, di un torrente d’acqua sgorgato a Roma nel rione Isteo, di un fulmine che aveva colpito l’atrio pubblico sul Campidoglio, un altro tempio nel campo di Vulcano, pure un’arce in Sabina ed ancora il muro e la porta a Gabii; di un’asta mossasi a Preneste, di un bue che avrebbe parlato in Sicilia, di un feto che avrebbe gridato nel grembo materno, di una donna diventata uomo a Spoleto, di un’ara con uomini biancovestiti intorno apparsa ad Adria, di un secondo sciame d’api calato a Roma nel Foro, di legioni armate viste sul Gianicolo. Questo impressionante elenco di prodigi funesti ci fa capire a qual punto fosse arrivato il timor panico dei romani, presi da un senso drammatico di imminente catastrofe, per cui continuarono le supplicationes fino alla vittoriosa battaglia del Metauro che significò l’agognata pace degli dei.
Nel settembre del 1908, in una tomba della necropoli di Sovana, furono rinvenute due statuette in piombo, risalenti al III sec. a.C., che raffiguravano un uomo e una donna nudi con le mani legate dietro la schiena. Lungo i corpi si leggevano i loro nomi: Zertur Cecnas e Velia Satnea. L’ipotesi più probabile è quella di una maledizione che avrebbe colpito i due personaggi, probabilmente due amanti. Chi subisce la maledizione, infatti, non è più libero delle sue azioni, ma sarebbe prigioniero della medesima.
Affidare al piombo, minerale duttile, i sortilegi o terribili sciagure era cosa comune nella Roma imperiale. La recente scoperta della lamina di piombo a nome Antonius, reca inciso il sortilegio: “Strappate l’occhio destro e sinistro dell’arbitro Sura, qui natus est de vulva maledicta” (e non importa tradurre). Il termine greco katadesmos tradotto in latino defixiones è impiegato dagli epigrafisti per indicare le lamine di piombo forate da chiodi con iscrizioni di maledizioni a carattere privato, da utilizzare contro chi si appresta a compiere un crimine o l’ha già commesso.


Nell’antica fonte romana cosiddetta di Anna Perenna, sono stati messi in luce una serie di oggetti di varia forma, classificati come testimonianze di riti magici, praticati dal popolo romano soprattutto nel mese di marzo in occasione dell’inizio dell’anno. Tra questi, una figurina impastata di miele, acqua e farina e introdotta a testa in giù in un cofanetto di piombo, che presenta su tutto il corpo lettere e simboli magici, mantenutasi grazie alla triplice sigillatura dei contenitori archeologici. Rivolte ad avversari in amore, rivali in campo sportivo, giudiziario e soprattutto ai ladri e malfattori, le maledizioni potevano colpire anche un singolo individuo o parti del corpo come la lingua, gli organi genitali, gli arti ecc. Le defixiones, venivano preparate da professionisti che seguivano delle particolari norme e che dietro compenso avrebbero poi scritto essi stessi i testi. Frequentemente, il manufatto da maledire era sepolto nel terreno assieme ad altri particolari oggetti, i quali servivano ad aumentare la loro efficacia. Curiose e singolari sono alcune figure di bamboline che probabilmente rappresentavano il destinatario della maledizione, spesso raffigurato con le mani legate dietro la schiena e il corpo trafitto da chiodi. Su una lamina di piombo rinvenuta a Morgantina (Sicilia), presso il santuario delle divinità infere (I sec. a.C.), si legge: “Gea, Ermete, degli Inferi, accogliete Venusta figlia di Rufo, la schiava, e fatela morire.” Altri ritrovamenti, sempre incisi su lamine metalliche, ci parlano di un ex innamorato che chiedeva vendetta alle divinità infere con queste parole: “… come il morto che qui è sepolto non può parlare e discorrere, allo stesso modo Rhodine in casa di M. Licinius Faustus sia morta […] Padre Dis ti raccomando Rhodine.” E Apuleio scrive: “ Ho sentito dire che neppure i morti possono stare più tranquilli nel loro sepolcro, ma che si va a caccia […] nelle tombe di avanzi e frammenti di cadaveri per farne funesti strumenti di sventura contri i vivi.”
Numerose sono le maledizioni riportate dagli storici, sia lanciate nel chiuso della propria casa, sia nella pubblica piazza, sia nei versi di famosi poeti romani afflitti da pene amorose. Scrive Tibullo a proposito di una mezzana: “Possa costei mangiare vivande sanguinolente e bere con la bocca insanguinata amare coppe insieme a molto fiele, e intorno a lei svolazzino sempre le anime lamentandosi del proprio destino e dai tetti ululi la terribile strige; essa stessa, stimolata dalla fame, cerchi furente in mezzo ai sepolcri le erbe e le ossa abbandonate dai lupi crudeli e corra col ventre nudo ululando per la città, e dietro la incalzi dai trivi una rabbiosa muta di cani.” E Properzio non è da meno con la sua maledizione: “Possa la terra ricoprire di spine il tuo sepolcro, o mezzana, e la tua ombra sentire ciò che non vuoi, la sete, e non siedano i Mani accanto alle tue ceneri, e Cerbero vendicatore atterrisca le tue turpi ossa col suo lamento di cane digiuno! […] Sia tumulo per la mezzana una vecchia anfora col collo mozzato; e su di esso prema la tua forza o caprifico. E voi tutti che amate colpite questa tomba con sassi appuntiti e, insieme ai sassi, lanciate parole di maledizione.”
Plutarco, nella Vita di Crasso, ci parla di una maledizione lanciata dal tribuno Ateo nei confronti di Crasso che si apprestava a partire per la guerra contro i Parti: “(Ateo)…alle porte della città pose un braciere ardente e, come giunse Crasso, versandovi sopra incenso e libagioni, pronunciò maledizioni atroci e spaventose per se stesse, aggravate dai nomi di certe divinità terribili e strane, che invocò. Dicono i romani che siffatte imprecazioni di misteriosa ed antica natura, posseggano tale forza da non lasciare più scampo a chi ne sia colpito e male incoglie anche a chi ne usa. Perciò pochi le adoprano e mai per motivi futili. Così Ateo fu biasimato, giacchè […] aveva coinvolto anche la città in maledizioni che incutevano sacro terrore.” Da questa descrizione, si desume che le divinità “strane e terribili” sono con ogni probabilità di antica origine etrusca, oscure e misteriose per i romani che, conoscendo la grande sapienza e l’insuperabile maestria nell’interpretazione dei presagi e delle cose divine espresse dal popolo che avevano soggiogato, non dubitavano minimamente della loro efficacia e ne erano oltremodo atterriti.
Scongiuri, preghiere e formule magiche, non erano sufficienti a sentirsi protetti dalle maledizioni e dal malocchio. Ecco che allora si ricorreva, sin dalla giovane età, a talismani ed amuleti. L’Amuleto aveva la funzione di proteggere e dare benessere a chi lo portava, il Talismano invece, mirava per lo più ad esaudire desideri difficilmente realizzabili, non lo tratteremo quindi in questa sede, dedicata solo alla difesa e all’offesa sia magica che scaramantica.

Varrone, a proposito della parola scaeva, spiega che contro il malocchio si usava mettere al collo dei bambini un amuleto con le sembianze di una figura oscena, chiamata appunto scaevola, ovvero sinistra, in quanto gli auspici che venivano da sinistra, come riferivano i sacerdoti etruschi, erano ritenuti favorevoli (in seguito la sinistra, ritenuta la parte del diavolo, divenne di malaugurio).
A volte, l’amuleto aveva la forma di un fallo. A Roma il fallo veniva spesso raffigurato nelle piazze, agli angoli delle vie e all’ingresso di ville e abitazioni patrizie. Il pene eretto era un potente amuleto contro invidia e malocchio. Le matrone patrizie propiziavano la loro fecondità portando il fallo come monile al collo o al braccio. Ne abbiamo numerose rappresentazioni in bronzo, terracotta, in legno e piombo, ma anche in metalli preziosi. Un altro amuleto molto usato era la falce di luna crescente (lunatula) in oro o argento, simbolo di buona fortuna, ma anche l’ambra era efficace contro maledizioni e malocchio.
L’elenco degli amuleti che si portavano addosso o si tenevano nelle abitazioni per contrastare la sfortuna, le malattie, o per scongiurare malefici è lungo, e molti di questi oggetti sono stati tramandati nei secoli fino ai giorni nostri, per non parlare delle preghiere che, pur se rivolte in gran parte ad un solo dio, non hanno alterato il loro fine: l’allontanamento del male, di qualsiasi natura esso sia, dalla propria persona e da chi ci è caro, così come propiziarsi la fortuna e il benessere. Pure magie e incantesimi hanno attraversato la storia fino all’età moderna e molte persone ingenue o disperate ancora ne usufruiscono o ne sono vittime. E le maledizioni? Meglio non parlarne!
Giovanni Spini