domenica 15 maggio 2016

Le verità nascoste dietro alla morte di Aldo Moro

38 ANNI FA MORIVA ALDO MORO. LA VERITÀ SI CONOSCE MA È INDICIBILE


9 maggio 2016
©LaPresse
Archivio storico
Politica
Roma 15-11-1963
Aldo Moro
Nella foto: l'onorevole Aldo Moro
B 805
38 anni fa in via Caetani veniva ritrovato in una Renault 4 in pieno centro a Roma il corpo dell’ex presidente del Consiglio Aldo Moro, “giustiziato” dal tribunale del popolo delle Brigate Rosse. Sabato ricorreva l’anniversario del triste epilogo. Ne abbiamo parlato con Giovanni Fasanella, scrittore e giornalista che da anni si occupa del caso Moro.

Giovanni, una Commissione di inchiesta ad hoc non è bastata a fare luce su diversi dettagli a distanza di quasi 40 anni. Ognuno ha la propria versione del “che cosa non ha funzionato”: i giornalisti, i diversi governi che si sono succeduti in questi decenni, la stessa Commissione. Quale è la versione di Giovanni Fasanella?
Non c’è una “versione Fasanella”, ma solo un metodo di ricerca. Ma dirò dopo. Prima vorrei precisare che non è del tutto vero che la Commissione parlamentare a suo tempo presieduta da Giovanni Pellegrino non riuscì a far luce. Produsse invece risultati eccellenti. Il problema fu che Pellegrino non riuscì a presentare una relazione finale a causa dei conflitti tra forze politiche a cui non interessava la verità, ma una verità. O, peggio, una verità di partito. Per questo, nel 2000, ormai al termine del suo mandato, decise di dare alle stampe, insieme a me e a Claudio Sestieri, il libro “Segreto di Stato”, pubblicato da Einaudi: perché non voleva che il lavoro da lui svolto per sette anni andasse completamente perduto a causa della cecità politica e –altro ostacolo con cui dovette fare i conti- dell’ostracismo del tutto incomprensibile (o forse fin troppo comprensibile) da parte di lobby giornalistico-intellettuali. Quel libro fu esaminato ai “raggi x”, riga per riga, da vertici e analisti di apparati di sicurezza e lo giudicarono lo strumento più serio, solido ed onesto per decifrare non solo il caso Moro ma l’intero decennio orribile che va dalla strage di Piazza Fontana (1969) all’assassinio del presidente democristiano (1978).
E’ vero che quel testo fu adottato anche in molte università?
E’ così, è stato adottato in molti corsi universitari e argomento di non so quante tesi di laurea in storia contemporanea. E ancora oggi, nonostante i mal di pancia di una parte del mondo accademico legato a determinati centri di influenza o a interessi politici, è considerato un testo dal quale la storiografia non può prescindere. Ma Pellegrino ha lasciato in eredità anche un importante dossier sul ruolo di un gruppo brigatista spurio della colonna fiorentina che, se fosse stato approfondito dalla magistratura avrebbe aggiunto al puzzle molti dei tasselli mancanti: lo trasmise alla procura romana, ma venne incredibilmente trascurato. Spero che adesso il successore di Pellegrino, Giuseppe fioroni, lo riprenda in mano.
Il “nodo fiorentino”?
Il nodo fiorentino, sì. Quello è uno snodo fondamentale della vicenda Moro. Perché collega via Caetani, il luogo romano in cui venne trovato il cadavere di Moro, con Firenze, la città dove Mario Moretti portava i verbali degli interrogatori condotti nella “prigione” brigatista. A Firenze operava il cervello, mai eperso e tuttora protetto, che gestì politicamente la vicenda Moro durante i 55 giorni del sequestro.
Se quel dossier fosse stato esaminato con la dovuta attenzione, quali tasselli avrebbe aggiunto?
Sarebbero emerse appunto quelle che, in un discorso pronunciato nel 1998 alle Camere per il ventennale dell’assassinio di Moro, l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro definì le “altre intelligenze” delle Br, invitando il Parlamento e la magistratura a cercarle. Sarebbe emersa l’”area della contiguità”, quel ceto politico-intellettuale che fiancheggiò e in una certa misura diresse anche le Brigate Rosse. Sarebbero emersi i contatti di quell’area con potenti famiglie aristocratiche fiorentine tra le più cosmopolite. E, continuando a scavare, si sarebbero individuati anche i canali occulti attraverso i quali il livello più alto del terrorismo italiano interagiva con alcuni poteri interni e con istituzioni internazionali. Verità che i ricercatori seri ormai conoscono e stanno anche cominciando a documentare. Ma che molti si ostinano a negare perchè verità molto imbarazzanti per una parte dell’establishment del nostro paese, a cominciare da quello politico-culturale e dell’informazione.
Veniamo al “metodo Fasanella”. In che cosa consiste?
La definizione non è mia, ma di Rino Formica, un dirigente socialista tra i più lucidi e intelligenti della vecchia guardia dei politici italiani, uno che sa molto bene come sono andate le cose. Il “metodo Fasanella”, secondo la sua definizione, è la ricerca completamente libera da ogni tipo di condizionamento che, sulla base di testimonianze e documenti d’archivio, ricostruisce i vari episodi non  singolarmente e separati l’uno dall’altro, ma li colloca, li connette tra loro e li interpreta all’interno di un contesto storico-politico e geopolitico. E’ questo il lavoro che ho fatto attraverso i miei 22 libri. Ho cercato di non essere risucchiato nei giochi di specchi della ricostruzione di dettagli, ma di capirci qualcosa inserendo i dettagli all’interno di un quadro molto più generale.
Come spiegheresti ad un ragazzo di 20 anni perché è importante scoprire la verità nel caso Moro a distanza di tutto questo tempo? E’ “soltanto” una questione che riguarda i valori democratici di un paese o un tassello mancante, ma fondamentale, nel puzzle della storia italiana?
Nelle sue memorie, Giovanni Giolitti raccomandava di non aprire certi armadi del nostro Risorgimento perché contengono troppi scheletri che potrebbero sfatare leggende che sono belle. Beh, dobbiamo deciderci. Che cosa diciamo ai ventenni di oggi, che saranno la classe dirigente di domani: raccontiamo loro una storia onesta, equilibrata e non omertosa o continuiamo ad alimentare leggende che saranno pure belle, ma non vere? Io posso capire se a volte è lo Stato a proteggere certe zone d’ombra in nome di un interesse superiore. Entro certi limiti è comprensibile, persino legittimo, ed avviene anche in nazioni con sistemi democratici più antichi e robusti dei nostri. Ma non possono essere i giornalisti, gli storici e gli intellettuali a fare questo lavoro “sporco”. Da noi è così. Ed è un’indecenza! Dunque, ai ventenni, dobbiamo dire che cos’è stato il caso Moro nella sua essenza: un atto di guerra politico-economica condotta da interessi stranieri contro l’Italia utilizzando quinte colonne e manovalanza interne. E dobbiamo farlo non solo per aggiungere al puzzle qualche tassello mancante, ma perché è nell’interesse del nostro paese formare delle classi dirigenti future con un’idea della storia dalla quale proveniamo e una nozione dell’interesse nazionale a cui ispirarsi. In una intervista alla rivista Limes, una volta Francesco Cossiga disse: «Io non mi meraviglierei (…) se un giorno si scoprisse che anche spezzoni di servizi di paesi alleati (…) avessero potuto avere interesse a mantenere alta la tensione in Italia. (…) E quindi a tenere basso il profilo geopolitico del nostro paese». Ecco, questa frase dovrebbe essere incorniciata e appesa in tutte le scuole e nei palazzi di chi ha responsabilità di governo a tutti i livelli.
Quando scompaiono i grandi statisti, si dice sempre che questi si portino i segreti nella tomba. Lo si è detto dopo la morte di Cossiga, e ancora di più dopo la più recente scomparsa di Giulio Andreotti. In merito al caso Moro, cosa pensi che non riusciremo mai a sapere e che era custodito nei diari e nelle memorie private di questi due ex-presidenti?
E’ impossibile entrare nella testa di una persona qualsiasi, figuriamoci in quella di un grande statista, che ne ha viste e sentite davvero tante. Quindi non so dire che cosa “non sapremo mai”. Posso dire però che gli uomini politici che tu hai citato, e anche tanti altri che sono scomparsi, hanno lasciato i loro diari e le loro memorie private alle famiglie o a delle fondazioni. Gran parte di questo materiale è stato poi riversato negli archivi di Stato. Bisognerebbe fare in modo che fosse più facilmente accessibile ai ricercatori, che tra quelle carte troverebbero sicuramente informazioni molto preziose per la storia politica del nostro paese. Ma non facciamoci troppe illusioni: le informazioni più sensibili sono al sicuro nelle casseforti più blindate e protette dello Stato.
E si potrà mai accedere anche alle informazioni più sensibili?
Ecco, questa è la domanda. Il Parlamento italiano ha varato qualche anno fa una riforma dei Servizi che stabilisce anche la durata del segreto di Stato, che prima era eterna. Ma è una riforma inutile, perché di fatto è inapplicabile. Non esistono infatti procedure certe attraverso le quali declassificare i documenti più sensibili. Di tanto in tanto vengono riversati all’Archivio centrale dello Stato centinaia di chili di carta, ma di importanza relativa. Il vero problema –nessuno ha l’onestà di dirlo apertamente all’opinione pubblica-  è che il governo italiano non ha alcun potere sui documenti segreti più sensibili dalla seconda guerra mondiale in poi: sono la Nato e i servizi anglo-americani a decidere quali informazioni divulgare e quali no. Nonostante siano trascorsi ormai oltre 70 anni dalla fine della guerra, il nostro status è ancora quello di una nazione sconfitta, e quindi soggetta ai vincoli imposti nei trattati dai paesi vincitori. E’ inutile continuare ad invocare l’apertura di tutti gli archivi se non si tiene conto di questo piccolo particolare.
Che vuoi dire, che bisogna denunciare i trattati internazionali?
Quelli sottoscritti liberamente, ovviamente no. Quelli imposti, invece, andrebbero rivisti almeno in qualche punto. Ma le nostre classi dirigenti oggi hanno la forza e l’autorevolezza per rivendicare questo diritto dell’Italia? Francamente, ne dubito. Questo, comunque, è un problema che riguarda direttamente le politiche dei governi e i rapporti tra gli Stati. Dal punto di vista dei ricercatori, invece, almeno per quanto riguarda me, non posso fare altro che continuare a seguire il “metodo Fasanella” descritto da Rino Formica. L’ostacolo imposto dai vincoli internazionali è in parte aggirabile se, la ricerca viene condotta interfacciando le informazioni reperibili in Italia con quelle conservate negli archivi assai più seri è più ricchi, per esempio,  dei paesi anglosassoni.
Il rapimento e l’uccisione di un ex- presidente del Consiglio e segretario di Partito oggi è qualcosa di impensabile per un paese civile e democratico, eppure parliamo di appena 39 anni fa. A chi dice che “si stava meglio prima”, verrebbe da rispondere ricordando il sangue e il terrore di quegli anni. Da questo punto di vista, avendo vissuto quella stagione, come credi che sia cambiato il modo di vivere la politica, la democrazia e le istituzioni degli italiani? C’è davvero più “tranquillità” a costo però di un calo della “passione” e del livello della politica?
Si stava sicuramente meglio prima. Nel senso che l’Italia, uscita sconfitta e a pezzi da una guerra disastrosa, era riuscita a risalire la china e a conquistarsi un ruolo importante sulla scena internazionale, e addirittura di primissimo piano su quella mediterranea e mediorientale. Il prezzo che purtroppo abbiamo dovuto pagare sono stati i tanti morti e feriti provocati dal terrorismo. Oggi questo rischio non lo corriamo perché contiamo molto meno. E comunque i nostri avversari o concorrenti, riescono a tenere basso il profilo geopolitico dell’Italia senza fomentare il terrorismo, ma ricorrendo ad altri metodi di destabilizzazione in questa fase assai più efficaci.
Quali?
Premesso che noi stessi forniamo in abbondanza le munizioni per spararci addosso, fomentano le nostre divisioni politiche trasformandole in risse senza fine. E fanno largo uso anche della macchina del fango, mettendo in circolo informazioni attraverso ong all’apparenza indipendenti, ma in realtà legate a macchine della propaganda occulta di servizi segreti stranieri. Noi però, ripetiamolo, gli rendiamo il lavoro molto più facile. Tanto che a volte arrivo a pensare che per i reati di corruzione, ad  esempio, dovrebbe essere introdotta l’aggravante dell’”alto tradimento”, per il doppio danno arrecato ai cittadini e al prestigio internazionale dell’Italia.
Il caso Moro è quindi, secondo te, soprattutto una questione di “esigere la verità” in quanto cittadini di una nazione. Nelle tue inchieste e nei tuoi libri sei sempre in cerca di qualche verità insabbiata più che nascosta. Quali sono gli altri grandi filoni di inchiesta sui quali stai lavorando oltre al caso Moro?
Alla prima parte della tua domanda rispondo sì, aggiungendo che l’esigenza di verità è indispensabile innanzitutto per il nostro futuro. Lo dico perché ogni tanto mi imbatto in qualche imbecille che mi rimprovera di essere ossessionato dal passato, mi accusa di vivere prigioniero di una storia ormai finita, e non capisce invece quanto quella storia, mai del tutto elaborata, ci condizioni ancora oggi. Alla seconda parte della domanda, preferirei dare una risposta un po’ più vaga: il mio lavoro non è ancora finito. E sicuramente non finirà finchè ci saranno storici e giornalisti che continueranno a dire che non c’è più niente da sapere.

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