sabato 31 dicembre 2016

Giano il Dio padre degli Dei che apre l'anno nuovo come divinità preposta alle porte rappresentato con le chiavi in mano

Dal tempio di Giano 

alla Porta Santa, 

tutta una questione di 

aperture e chiusure


La porta ha il significato simbolico di rappresentare un ‘percorso straordinario’ offerto ai fedeli verso la salvezza; tuttavia questa pratica di aprire e chiudere ‘porte’, non può che riportarci alla memoria, mutatis mutandum, un altro rito, tutto romano: quello dell’apertura delle porte del tempio di Giano bifronte.

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di Alba subrizio
A dir poco emozionante vedere l’apertura della Porta Santa della cattedrale di Bangui nella Repubblica centrafricana qualche giorno fa. Le immagini di Papa Francesco che spinge i battenti del ‘grande portone’ hanno fatto il giro del mondo e hanno dato così inizio all’anno giubilare. Dobbiamo aspettare l’8 dicembre, giorno in cui cade la ricorrenza liturgica dell’Immacolata concezione, per vedere aperta in mondo-visione la Porta Santa di San Pietro; eh già, perché – per chi non lo sapesse – la Cattedrale più famosa dell’Urbe ha una Porta Santa (così come altre  chiese del mondo), che viene murata tra un Giubileo e l’altro e aperta solo in tale occasione, dando così ufficialmente avvio all’Anno Santo. La porta ha il significato simbolico di rappresentare un ‘percorso straordinario’ offerto ai fedeli verso la salvezza; tuttavia questa pratica di aprire e chiudere ‘porte’, non può che riportarci alla memoria, mutatis mutandum, un altro rito, tutto romano: quello dell’apertura delle porte del tempio di Giano bifronte. Il dio Giano era una delle divinità più antiche di tutto il territorio italico (risalente forse ad un’epoca arcaica, quando non ancora era stato assimilato il pantheon delle divinità greche) ed era rappresentato con due facce, una opposta all’altra, poiché poteva guardare il futuro e il passato ma anche perché, essendo il dio della porta (“ianua” in latino), doveva guardare, nonché custodire sia dall'interno che dall'esterno; il suo tempio era una sorta di grande arco a due ingressi, dove al centro era collocata la statua del dio. La particolarità è che per i Romani di duemila anni fa il tempio di Giano si apriva nel momento in cui si dichiarava guerra ad un nemico e veniva chiuso solo in periodi di pace: in pratica l’esatto contrario del rito cattolico (in cui l’apertura è invece un segno positivo). L’apertura e la chiusura delle porte aveva un preciso rituale solenne ed era affidata al Rex sacrorum (“re delle cose sacre”), a cui si affiancavano i vari ‘sacerdoti’. Il tempio poteva restare aperto talvolta per decenni e quando un qualche imperatore lo chiudeva era salutato con grande fervore, perché equivaleva a comunicare al popolo romano l’intento di riportare la pace dopo tante guerre: è il caso degli imperatori Nerone e Augusto. Concludiamo con un ultimo ‘appunto’: l’8 dicembre pare si celebrassero a Roma le feste per un’altra divinità molto antica, i Tiberinalia, in onore del dio Tiberino, legato al fiume Tevere e figlio di Giano e Giuturna. Secondo i Latini, tali feste - istituite da Romolo che era stato salvato dalle acque del fiume - consistevano in un rito propiziatorio di ‘purificazione’. Le religioni sono cambiate ma le porte restano; alle soglie del 2016, confidiamo pertanto nell’apertura di questa ‘porta santa’: buon anno di pace a tutti!

venerdì 30 dicembre 2016

Il male e l'uomo

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Se gli dèi esaudissero le preghiere degli uomini, l’umanità verrebbe dissolta a causa di tutti i mali che gli uomini si invocano l’un l’altro.
(Euripide)

mercoledì 28 dicembre 2016

Pievi toscane e simboli antichi

Un video interessantissimo, che ci indica dei percorsi reali per aprirci a conoscenze antichissime, dove il passato anticolontano ritorna ancora oggi pulsante, nell'attualità dei loro miti e nell'immortalità eterna che li porta a noi

lunedì 26 dicembre 2016

L'ostensorio l'immagine siderale del dio SOLE

                                                      Risultati immagini per Ostensorio
















L'ostensorio oggetto fondamentale nelle liturgie cristiane non è altro che la rappresentazione sintetica del sole, un concetto trasposto che implica le radici pagano-solari del cristianesimo, anche se da sempre si è instaurato un conflitto, solo marginale, fra le liturgie cristiane e quelle pagane.
Il legame stretto rimane  legando  all'efflato religioso-sacro che mantiene un  legame indissolubile fra le credenze antiche con quelle monoteistiche moderne..........



Il pane, come altri cibi, è stato usato ben prima dell’avvento del cristianesimo in riti religiosi

Intervista a Giovanni Filoramo

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Giovanni Filoramo insegna Storia del Cristianesimo presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni: L’attesa della fine: storia della gnosiReligione e ragione tra Ottocento e NovecentoIl risveglio della gnosi, ovvero diventare dio, Cristianesimo e società antica. È curatore di volumi sulla storia delle religioni e sulla storia del cristianesimo.

Perché l’eucaristia, sacramento centrale della religione cristiana, si serve di pane e vino? Tra pane e sacro esiste una relazione precedente al cristianesimo?
Il pane, come altri cibi, è stato usato ben prima dell’avvento del cristianesimo in riti religiosi come oggetto da offrire alla divinità. Dall’Epopea di Gilgamesh, un racconto epico di fondamentale importanza della religione babilonese, apprendiamo che già nel secondo millennio a.C. il pane era offerto agli dèi come oggetto consacrato. Anche in altre culture del Mediterraneo antico, in cui si coltivava il grano e l’alimentazione era incentrata sul consumo dei cereali, il pane ha avuto un posto d’onore nei rituali. Soltanto nel cristianesimo, d’altro canto, la consacrazione del pane e il suo sacrificio in quanto «corpo di Cristo» hanno assunto un valore così centrale e assoluto. Su questo punto, il cristianesimo si differenzia dalle religioni classiche come quella greca e quella romana. Per i greci, il cibo privilegiato offerto nei grandi sacrifici pubblici – che costituivano il cuore della religione delle città greche – era la carne degli animali uccisi per essere offerti alle varie divinità. Questa carne era cotta e offerta alla divinità nelle parti ritenute più preziose, mentre il resto veniva diviso tra i sacerdoti officianti e distribuito al popolo che partecipava al rito.
Anche i greci avevano una divinità protettrice dei cereali (e dunque del pane), Demetra, in onore della quale, a partire dal vii secolo a.C., si celebrarono in una cittadina vicino ad Atene, Eleusi, riti misterici celebri. Proprio, però, la natura misterica di questi riti, che impediva agli iniziati di svelarne il contenuto, ci impedisce di sapere se per esempio a Demetra fosse offerto in sacrificio il pane.
Se si vuole trovare un precedente al rito cristiano, occorre guardare alla religione dell’Israele antico. In alcune antiche feste ebraiche, attestate nell’Antico Testamento, sono presenti usi sacrali del pane. Per Shavu’ot, la festa del raccolto o Festa delle Settimane, ad esempio, gli israeliti recavano al loro Dio come oblazione due pani di grano. Questa festa aveva luogo cinquanta giorni (sette settimane) dopo la Pasqua e divenne perciò nota col nome greco di Pentecoste: commemorava il giorno in cui Mosè ricevette le Tavole della Legge sul monte Sinai. Vi era poi Hag ha-Matsot, la festa del Pane Azzimo, una delle tre grandi feste agricole celebrate dagli israeliti dopo il loro stanziamento nella terra di Canaan. Essa era originariamente un rito di ringraziamento all’inizio del raccolto del grano, ma più tardi venne unita alla festa pastorale nomade della Pasqua, la commemorazione storica dell’uscita di Israele dall’Egitto. Per sette giorni gli ebrei mangiavano solo pane non lievitato, come segno di un nuovo inizio. Un precedente importante del rito cristiano è, infine, il «pane della presenza», che gli israeliti erano soliti deporre davanti al Santo dei Santi nel Tempio di Gerusalemme (Levitico 24,5-9): sopra una tavola, su due pile, venivano poste dodici focacce di pura farina di grano, rappresentanti le dodici tribù di Israele e la loro alleanza eterna con Jahvé. Ogni sabato esse venivano rimpiazzate e mangiate dai sacerdoti. Proprio questi precedenti, d’altro canto, aiutano a comprendere meglio la profonda e radicale novità rappresentata dal rito cristiano, che presuppone l’identificazione di Gesù come «pane di vita» (Giovanni 6) col pane offerto dal sacerdote. Se si vuole trovare un parallelo occorre guardare a una religione lontana nel tempo e nello spazio, una religione tipicamente sacrificale come quella degli aztechi. Essi usavano fare un impasto simile al pane dai semi del papavero e lo modellavano a forma del dio Huitzilopochtli. Questo pane a forma di figura umana veniva poi spezzato e mangiato dai sacrificanti, con lo scopo di «mangiare il dio» per assimilarne sostanza e poteri.
Anche il vino ha avuto un uso religioso prima del cristianesimo? Qual è lo specifico cristiano?
Quanto al vino, occorre partire da una premessa: come nel caso del pane l’uso rituale e sacro ha come premessa indispensabile la presenza della coltura dei cereali, così l’uso rituale e sacro del vino ha come premessa necessaria la coltura della vite. Ora, nel mondo mediterraneo antico che fa da sfondo al sorgere e alla diffusione del cristianesimo, la coltura della vite non era altrettanto diffusa di quella dei cereali. Non dovremo, di conseguenza, stupirci, che un uso rituale e sacro del vino sia presente in quei paesi, come l’Egitto, Israele, la Grecia e Roma, dove la coltivazione della vite e l’uso del vino sono largamente attestati. Occorre inoltre tenere presente una seconda caratteristica delle antiche culture del vino: il fatto che esso per lo più venisse consumato mescolato a quantità variabili di acqua. Il vino, infatti, come insegna in Grecia la vicenda del dio che ne è il simbolo, Dioniso, ha una doppia valenza, positiva e negativa: può curare dai malanni, donare l’ebbrezza momentanea che libera da affanni e preoccupazioni, favorire in certi casi addirittura l’estasi che permette di congiungersi alla divinità; ma, preso in quantità eccessiva, è pericoloso e può condurre alla follia o alla morte. Per questo, in varie mitologie, nella sua purezza e integrità, esso è la bevanda degli dèi, che garantisce loro l’immortalità.
Torniamo ora al suo uso sacrificale. Vi sono precedenti all’uso rituale e sacrificale cristiano. In Egitto a lungo il vino è stato, insieme alla birra, l’offerta sacrificale più diffusa. Non a caso, nei Testi delle piramidi il cielo viene descritto come una vigna divina e il defunto potrà, dopo la sua morte, goderne i frutti. È in Grecia, però, che il vino acquista, in collegamento con la figura misteriosa di Dioniso, una valenza sacrificale particolare. Nella tragedia di Euripide Le Baccanti, il dio è identificato col vino: «È lui che, nato dio, viene versato come offerta agli dèi…» (v. 284). Dioniso viene dunque identificato con la sostanza stessa del vino offerto nel sacrificio agli dèi, secondo un modello che si ritrova peraltro nel sacrificio del soma, una bevanda simile al vino, nei testi più antichi dell’induismo, i Veda. D’altro canto, il sacrificio cristiano si distingue da quello dionisiaco perché ora a essere identificato col vino è un personaggio storico in carne e ossa: Gesù, e per il valore di memoriale che lo stesso Gesù assegna a questa consacrazione nell’ultima cena di quell’evento fondante e specifico del cristianesimo che è la sua passione, morte e risurrezione.

domenica 25 dicembre 2016

Per Plotino l'Uno e l'Unità rappresentano Dio, che nei suoi scritti non nomina mai

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L'uno e la gerarchia della realtà Da Platone riprende soprattutto la struttura gerarchica della realtà ; a differenza di Platone , però , secondo il quale al vertice vi era un principio bipolare , Plotino mette a capo dell' intera realtà l' Uno; Plotino si lascia molto influenzare da questo punto di vista dalle idee correnti ai suoi tempi , che tendevano a ridurre il principio bipolare : in fin dei conti avviene questo : al vertice della realtà non può esservi un principio " doppio " , quindi l'Uno é il vertice e il Due é declassato nell' ambito della scala gerarchica . Dunque per Plotino al vertice della realtà c'é l'Uno , al secondo livello il Nous ( la ragione ) , ciò che Platone chiamava diade . L' Uno di Plotino é l' erede del principio supremo della filosofia platonica , ossia il Bene in sé , la cui caratteristica fondamentale era di essere " superiore all' essere per dignità e potenza " ; l' Uno é esattamente la stessa cosa : é un qualcosa al di sopra dell' essere ; da notare che Plotino ammette una teologia negativa : infatti l' Uno , che di fatto é il dio per Plotino , non lo chiama dio perchè cadrebbe in errore ; chiamarlo Uno é la maniera meno sbagliata di definirlo , in quanto si tratta di una realtà superiore all' essere , a tutto quanto e , come già aveva detto Platone nel " Parmenide " , non può neanche essere nominato , perchè così facendo non sarebbe già più un principio unico ; é come se nominandolo già si sdoppiasse : definendolo Uno si applica proprio la teologia negativa perchè non si dice ciò che dio é , ma ciò che non é , ossia si dice che non é molteplice . E' proprio questo il cardine della teologia negativa , che vuole dio ineffabile : l' unico modo per parlarne é parlarne in termini negativi , ossia dire ciò che dio non é : dio non é buono , non é bello , non é alto , non é basso ... Anche chiamarlo Bene , come aveva fatto Platone , non é corretto perchè lo si definirebbe in rapporto alle altre cose , per cui egli rappresenta il bene : definirlo Bene significherebbe ammettere che si occupa delle cose , essendo per loro il bene : ma ricordiamoci che dio per Plotino é " pensiero di pensiero " .L' Uno quindi é al vertice e la realtà ne deriva in maniera gerarchica ; ma come fa a derivare la realtà ? Plotino si serve per esprimere questo concetto di due parole : emanazione e processione ; la prima delle due espressioni é più generica e forse rende meno bene l' idea , ma di fatto si completano a vicenda . La realtà emana dall' Uno , ma in che modo ? L' attività dell' Uno , innanzitutto , non é nè necessaria nè libera , oppure si può anche intendere che sia ambedue le cose : il contetto che sintetizza é la spontaneità ; ciò significa che l' Uno agisce senza obblighi , ma tuttavia seguendo la propria natura : l' azione dell' Uno é spontanea

San Fermo Maggiore: una chiesa di dolore e di sofferenze attroci!

Gli inquisitori di Verona presso San Fermo Maggiore

Questo giorno vuole passare un cristianesimo sereno e colmo di buone intenzioni, ma bisogna fare i conti anche con l’altra storia quella che si vuole dimenticare.
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Probabilmente anche San Francesco si rivolterebbe nella tomba apprendendo le malefatte dei francescani in Verona, che assolsero all'infame funzione di frati inquisitori.

A San Fermo e Rustico fu attiva per secoli l’inquisizione, l’istituzione ecclesiastica fondata dalla Chiesa cattolica per indagare e punire, mediante un apposito tribunale i sostenitori o presunti tali, di teorie considerate contrarie all’ortodossia cattolica. Per scoprire ed istruire un processo di eresia, non si conducevano indagini bastava un solo testimone per incriminare un individuo e mettere in moto la macchina dell’autoincriminazione coatta, dato che con facilità si estorcendo confessioni non attraverso indagini accurate, ma usando in maniera indiscriminata e diffusa la tortura portata alle estreme conseguenze. Tutto fu organizzato dalla Santa Sede per mantenere il potere e il controllo delle genti. Il colpevole era punito anche con la pena capitale, gli eventuali suoi testi bruciati per salvaguardare la chiesa e la sua autorità.
A San Fermo Maggiore furono processati e condannati i 155 catari che l'11 novembre 1276 che rifugiatesi a Sirmione furono arrestati con una spedizione militare guidata dal capitano del popolo di Mantova e da Alberto della Scala, entrambi interessati ad ottenere favori papali, abbattendo quest’ultima roccaforte catara. Furono poi tutti portati a Verona, dove il 13 febbraio 1278 vennero arsi vivi in un immane rogo umano nell'Arena di Verona.
Una miriade di eretici passaro da questo tribunale con sofferenze fisiche e morali inimmaginabili. Ricordiamoci anche dei luogo dove venivano elargite immani sofferenze a coloro che non erano in linea con il pensiero teologico dominante!

Il fascismo era anche costituito da questi personaggi


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Gli uomini che hanno partecipato all'affermazione del Fascimo erano anche questi. Dopo aver solo demonizzato il fascimo bisogna comprendere i motivi e le dinamiche della sua affermazione

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Il Dio Sole

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Firenze, Basilica di Santa Maria Novella, dettaglio del timpano.

Questo simbolo in una chiesa cristiana cosa sta a significare? Che la potenza del Dio si esprime anche attraverso un simbolo che è il sole, la stella che determina i ritmi stagionale e regola le nostre cicliche esistenze terrene. Evviva il Dio Sole e con lui Ekh-naton..........

sabato 24 dicembre 2016

Il brutto santuario

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In fianco alla collina del monte Gallo (questo era il nome antico del colle che poi fu ribattezzato dai cristiani colle di San Pietro),  esiste monte San Leonardo o meglio quella che era la torricella di san Leonardo riconvertita dopo la II guerra Mondiale nel santuario della Madonna di Lourdes: architettonicamente e paesaggisticamente un obbrobrio, un pugno nell’occhio.
 Ancora oggi quando lo sguardo cade su quella parte alta della città scaligera si nota la bruttura, qualcosa che stride con il contesto e l'armonia di quella parte collinare che fa da corona e da sfondo. La saggezza popolare veronese ha battezzato quella chiesa della madonna dei miracoli, frutto di un intervento devastante su di una torricella difensiva austriaca: “LA DAMIGIANA”. 
Vux popoli vux Dei, in maniera precisa e concisa si è messo così il dito sulla piaga! 
Poteva andare anche peggio        
Pensate che quel santuario mariano doveva essere eretto sul Colle di San Pietro, ma la provvidenza ha  fatto in modo che una aggregazione trasversale di esponenti di vari partiti: liberali, comunisti e socialisti si coalizzassero opponendosi alle forze cattolico-democristiane che erano decise ad alterare la Caserma Austriaca in un santuario mariano. Il colle di San Pietro fu salvato per un miracolo. 
Quel luogo rappresenta il cuore che domina la città intera, come le radici pagane Verona. 

venerdì 23 dicembre 2016

Liberazione e danza "dionisiaca"

Massimo Centini

da Le bestie del diavolo


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Quando l'"avvelenamento" è ormai iniziato, si provvede a "far danzare forzatamente il tarantolato al suono d'istrumenti, fino a farlo cadere in un profusissimo sudore e sonno profondo, risvegliatosi dal quale, egli è guarito. La musica che viene suonata innanzi al tarantolato, può essere eseguita con qualunque istrumento, ma deve avere un carattere speciale; ossia deve essere molto flebile per un certo periodo iniziale: e dopo questo deve, con un crescendo sempre mantenuto, prendere il carattere di danza vivace che di consueto si traduce nel nostro trescone, simile assai alla tarantella napoletana. Innanzi all'infermo sono, durante la danza, agitate pezzuole di alcuni colori determinati, la cui vista è ad esso gradita". [1]

I segni costituiti dalle pezzuole colorate, con la musica divenivano oggetti vivi, caricati con un'energia che assegnava loro un ruolo particolarmente importante nella dimensione rituale della danza. Va chiarito che il rapporto tra la base musicale e i segni cromatici - che avevano il ruolo di indurre una sorta di trance nel tarantolato - non si basava su uno schema definito, ma prendeva forma di volta in volta sulla base di caratteristiche specifiche dell'ammalato.

Dall'analisi delle fonti sembrerebbe di poter concludere che "inclinazioni o aborrimenti cromatici sono nel tarantismo in rapporto con i contenuti critici individuali che si riversano nel simbolo mitico-rituale in azione". [2] In sintesi, nel tarantismo il simbolismo cromatico, come quello coreutico e musicale, assolveva la funzione di stimolare il deflusso emotivo, creando precise rispondenze sul piano simbolico. Già il Kircher (XVII secolo) aveva osservato: "Altri tarantolati si mostrano irresistibilmente attratti dal colore verde, altri dal color giallo, altri dal rosso: appena vedono un oggetto che sia del colore che li attrae, si accendono a tal punto di brama per esso da lanciarsi come leoni famelici per morsicarlo ripetutamente, la bocca spalancata, le braccia aperte, gli occhi lacrimosi, il petto ansante, stringono infine in amoroso amplesso il panno colorato e sembrano fingere una ardentissima unione, per così dire una identificazione con esso". [3]

Il fenomeno del tarantismo era particolarmente diffuso, al punto tale che i suonatori erano professionisti che operavano nelle varie province dove si verificavano casi di persone punte dalla tarantola; nell'Ottocento in Puglia agivano ottimi musicisti girovaghi per tarantolati. A Taranto, nel XVII secolo, erano addirittura dipendenti statali, segno questo della grande quantità di interventi richiesti. [4]


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È bene ricordare che le fonti sul rapporto tra la tarantola e la musica sono più antiche delle fonti sul tarantismo: ne abbiamo traccia nel Sertum papale de venenis attribuito a Guglielmo di Marra di Padova e probabilmente composto nel 1362. Nel capitolo dedicato al veleno della tarantola si fa riferimento ad una tradizione popolare secondo la quale la tarantola produce un effetto dopo un po' di tempo dal suo morso; quando poi il malato fosse stato sottoposto ad una musica che riecheggia il canto della tarantola, ne avrebbe ricevuto giovamento. 

In genere, il rito terapeutico della danza tendeva a placare per un certo tempo la sintomatologia, ma non ad eliminarla totalmente, in quanto, come abbiamo visto, essa riaffiorava stagionalmente. La crisi di fatto era l'occasione per far defluire forme di avvelenamento simbolico (traumi, frustrazioni, conflitti individuali ecc); inoltre, in determinate condizioni socio-economiche la crisi individuale, riplasmata nel tarantismo, poteva essere controllata ritualmente in seno alla cultura del gruppo. [...]

Le vittime del tarantismo furono le persone più suggestionabili ed isteriche che, vivendo in una situazione marginale, finirono per non resistere al peso delle frustrazioni indotte dalle carenze endemiche. In queste patologie furono convogliati atteggiamenti, istinti e ansie che non potevano trovare una soluzione sul piano della realtà. Ma accanto ad una situazione conflittuale che trovava nell'apparato simbolico del morso e del "ri-morso" una possibilità per rispondere ad istanze interne alla società, si ponevano residui di tradizioni più antiche, in cui il ballo e il rapporto con il soprannaturale erano strettamente connessi. Una connessione che, ancora oggi, conserva alcuni interrogativi senza risposta.

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NOTE

1. Z. Zanetti, La medicina delle nostre donne, 1892, Rist. Anast. 1978, pag. 218
2. E. De Martino, La terra del rimorso, Milano 1961, pag. 153
3. A. Kircher, Magni sive de arte magnetica libri tres, 1641
4. E. De Martino, Op. Cit., 1961, pag. 155

Massimo Centini, Le bestie del diavolo (Rusconi, pag. 162 e seguenti)