domenica 17 maggio 2015

FELLINII SI CREDEVA UN MAGO MA INSEGUI PER UNA VITA CASTANEDA CHE NON VOLEVA VEDERLO


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Quando Fellini mi disse che voleva 

fare il mago

L’esoterismo, l’iniziazione, un intenso 

rapporto con sensitivi e veggenti: è il 

lato meno noto del regista italiano. A 

raccontarlo Filippo Ascione, che con lui 

ha condiviso film, chiacchierate e libri

Il signore anziano della foto è chiaramente Fellini. Lo è nella faccia così solo sua, nella stazza, in quel suo sguardo che fugge altrove. È inconfondibilmente il Fellini che tutti ricordiamo, anche seduto di sbieco nella luce rosa dell’alba, appena curvo sotto il peso della nottata passata all’addiaccio. Il ragazzetto dalla pelle di luna seduto di fronte a lui è invece diventato l’uomo che ho davanti, seduto di fronte a me in un salotto di velluti e piccole cose antiche in un palazzo romano a due passi dal Pantheon. Aveva 25 anni ai tempi, Filippo Ascione, ne ha 56 oggi.
«Questa è la foto di Federico che mi è più cara. Eravamo a Cinecittà, alle sei del mattino, davanti al suo Studio 5. Mi aveva detto: “Filippicchio” perché così mi chiamava “voglio vedere l’alba a Cinecittà, ce l’ho ricostruita mille volte, ma non l’ho mai vista”. Parlammo di sincronicità tutta la notte». Avevano discusso della teoria dello psicanalista Carl Jung anche al loro primo incontro. «Studiavo medicina, ero a Cinecittà a trovare un amico. Mi vide e mi chiese: “Lei è attore?”. Non lo ero, ma volle conoscermi lo stesso. Cominciammo a parlare e non ci siamo più separati. Divenni prima il suo aiuto regista, poi sceneggiatore, ho lavorato a tutti i suoi film da E la nave va in poi».
Nessuno più di Filippicchio, che poi ha collaborato a tanti film di Carlo Verdone e di Sergio Rubini, può raccontare, a quasi vent’anni dalla morte del maestro, il “Fellini degli spiriti”, ovvero il rapporto del regista con il paranormale, i sogni, la magia bianca, la sincronicità, appunto, secondo la quale nulla accade per caso. E nel caso in questione, tutto finisce nei film. Filippicchio ha ereditato la biblioteca esoterica di Fellini, ma è la prima volta che accetta di parlare dell’argomento.
Perché era così importante la sincronicità per Fellini? «La vedeva ovunque. La usava, per esempio, per scegliere gli attori. Trovò così Freddie Jones, per E la nave va. Il set era pronto e ancora non c’era il protagonista: Orlando. Restava da vedere solo un attore inglese. Jones arriva, Federico gli fa tre provini, lo boccia. Il produttore, Franco Cristaldi, era disperato. Però, Federico, dispiaciuto, si offre di accompagnare l’attore in aeroporto. In auto, Jones si appisola e Fellini quasi parlando tra sé e sé dice, guardandolo: “Chi sei tu? Come ti chiami?”. In quel momento, passano davanti a un manifesto e vede una scritta enorme: Orlando. Chi sei? Come ti chiami? Orlando. Mancava poco che ordinasse inversione a U sul raccordo anulare».
Prima di Giulietta degli spiriti, Fellini si era dato alle sedute spiritiche. Quando lo ha conosciuto lei, continuava? 
«Negli Anni 80 non molto, ma era comunque curioso di medium come di cartomanti, al punto che andava dai ciarlatani nei retrobottega come da Gustavo Rol».
Quanto era stretto il rapporto col più famoso sensitivo italiano? 
«Lo consultava sulle sceneggiature. Glielo aveva fatto scoprire Dino Buzzati, lo scrittore. L’ho accompagnato anch’io a Torino, più volte. Lo abbiamo visto fare cose incredibili: quadri che si dipingevano da soli, la sua mano che trapassava le porte come fossero di burro, tavoli che sparivano fino a diventare gelatinosi e, se ci poggiavi qualcosa su, se lo risucchiavano. A me, Rol materializzò davanti una donna con la quale avevo dei problemi».
Il pittore Rinaldo Geleng sostiene che negli Anni 70, Rol, davanti a Fellini, materializzò Casanova. 
«Di sicuro, il Casanova del suo film è molto più oscuro di quello della letteratura. Federico ne parlava come se lo conoscesse».
Fellini cercava di apprendere i segreti di Rol? 
«Gli chiedeva sempre “la formula”. Finché Rol gli disse: “È semplicissimo: il colore verde, la quinta musicale e il calore”».
E lui? 
«Mi diceva sempre: “Il cinema mi ha risucchiato, ma io volevo fare il mago”. I film erano le sue magie. Quando giravamo, alle otto del mattino ci trovavamo in piazza del Popolo per andare a Cinecittà e non esisteva nulla: i copioni nascevano in quella mezz’ora d’auto, spesso ispirati ai suoi sogni della notte».
Che altro finiva nei film? 
«Tutto. Lui non era interessato al cinema in sé: nel suo studio di corso Italia non aveva un solo cimelio di film, ma solo libri esoterici o di psicologia e tutto Rudolf Steiner. Fare film era un modo per creare magie. Ne La voce della luna c’è una scena ispirata a una teoria del musicista Nino Rota, il quale sosteneva che determinate sequenze di note operano miracoli sulla materia. Il pezzo in cui gli oggetti sul pianoforte ballano nasce così».
Altri esempi? 
«Il pretino che nello stesso film levita è ispirato a un amico che viveva a Benares, in India, in un ashram, e che diceva di volare».
Ha detto che Fellini andava anche dai ciarlatani. 
«Con uguale entusiasmo infantile. Tanto, dai cartomanti le carte se le leggeva da solo: la simbologia è la stessa degli archetipi di Jung. E se sapeva di un sensitivo, si partiva. Io, lui e Fiammetta, la segretaria».
Trasferte prodigiose? 
«Anche disastrose. Nella campagna vicino Pistoia, una medium sosteneva di incidere la voce dei defunti sul magnetofono. In questo tugurio di vecchie contadine, luci spente, la medium armeggia con due vecchi magnetofoni che fanno un gran baccano. Fellini, che aveva senso dell’umorismo, fa sottovoce: “A me questa, mi pare una tramviera”. Dovemmo scappare. Però una donna col magnetofono l’ha poi messa in Ginger e Fred».
Il viaggio più avventuroso? 
«Lo fece da solo. Voleva conoscere una sensitiva russa che si diceva avesse resuscitato Breznev e viveva isolata al servizio del Kgb. Quando nel 1987 gli offrirono un premio a Mosca, pose come condizione che lo portassero da lei. Trattarono a lungo. C’era ancora la Guerra Fredda».
E ci riuscì? 
«Ufficialmente, non si sa. Però, non sarebbe andato a Mosca se non l’avessero accontentato, seppure a condizione che non ne parlasse mai».
Ma Fellini aveva abilità strane? 
«Credo fosse veggente. Se avevi un problema, diceva cose per confortarti: “Non fare niente: vedrai che mercoledì sera si risolve”, e il mercoledì sera si risolveva tutto».
Addirittura. 
«Un Natale, avevo un problema affettivo e me ne andai ad Atene da amici. Federico mi regalò un romanzetto rosa che non era da lui scegliere. Mi disse: “Leggilo e per Capodanno sarà tutto a posto”. La sera della vigilia, lo aprii: la storia cominciava proprio la sera del 24 dicembre e durava una settimana. Mi successero tutti gli eventi del libro: una telefonata di mercoledì, dei fiori di giovedì, il chiarimento a Capodanno. Ma la veggenza c’era anche nei film».
Cioè i film predicevano il futuro?
«Spesso. Nella scena finale di Intervista, gli indiani tirano su Cinecittà frecce a forma di antenne tv: nessuno ai tempi poteva immaginare che quegli studi sarebbero stati invasi dalle televisioni».
Nel 1986, Fellini scrisse sul Corriere della Sera di un viaggio inquietante nello Yucatàn per un film mai realizzato, tratto dai libri di Carlos Castaneda. 
«Per quanto incredibile, il suo racconto è tutto vero. Castaneda fuggì dopo strane telefonate, Fellini e gli altri proseguirono, ma poi scapparono, spaventati anche loro. E i fenomeni continuarono in Italia e presero di mira Fellini, me e altri tre. Le telefonate con voce metallica ci raggiungevano anche dalle cabine per strada».
E che volevano? 
«Che facessimo un film sugli sciamani, ma senza Castaneda. Un giorno, due tipi sinistri e pallidi si presentano in ufficio a Roma e dicono a Federico: “Lei è stato individuato per girare un film con un messaggio”. E lui: “Che devo fare?”. “Niente. Avrà la sceneggiatura giorno per giorno”. Ovviamente, rifiutò. Le telefonate di quelli che chiamavamo “i messicani” diventarono persecutorie. Ci avevano battezzato coi nomi di cinque colori. Federico era il verde, io il bianco. Un sera, in un ristorante, si materializzò sul tavolo mezza palla coi nostri cinque colori».
E come vi liberaste dei messicani? 
«Federico andò da Rol. Rol gli disse che se ne sarebbero andati e quelli scomparvero».
Perché “i messicani” ce l’avevano con Castaneda? 
«La nostra idea è che il Don Juan dei suoi libri fosse un mago potente che aveva iniziato Castaneda e si era sentito tradito vedendosi commercializzato».
C’è un altro film che Fellini non realizzò mai: Il viaggio di G. Mastorna
«Ci fu pure una causa: Dino De Laurentiis aveva le scenografie pronte. Ma Rol sconsigliò a Federico di girarlo, lui si ammalò e in sogno ne attribuì la responsabilità al film. Si convinse che, se l’avesse girato, sarebbe morto».
Aveva paura della morte? 
«Aveva paura della vecchiaia. Della morte era curioso. Quando Ettore Scola sperimentò il coma e si risvegliò, prese a chiamarlo tutti i giorni, come fossero vecchi amici, ma non lo erano. Finché gli domandò cosa avesse visto in quei due minuti di morte apparente. Scola rispose “niente” e Federico non lo chiamò più». F
ellini non aveva molti intimi tra registi e attori. 
«Amava più musicisti e pittori. Non parlava mai di cinema. E non andava al cinema, se non per 007, perché – diceva – era il luna park. Una sera, promise a Sergio Leone di vedere C’era una volta in America. Invece, ce ne andammo a cena con una dottoressa tedesca. La mattina dopo, alle otto, al Bar Canova di piazza del Popolo a Roma, scrisse una letterina di critica come se l’avesse visto. Due ore dopo, chiama Leone e dice che non ha mai letto una critica di uno che ha seguito così attentamente il film».
Anche dei suoi film non parlava volentieri. 
«Non li rivedeva e non voleva fare le interviste perché non se li ricordava. Diceva: “Nei film brucio tutte le cose che voglio dimenticare”».
E cosa voleva dimenticare? 
«Forse i suoi sogni. Sognava moltissimo. Nella sua testa c’era una multisala. Anche gli attori li vedeva in sogno, li disegnava e poi li cercava. Fu così che scovai Sergio Rubini per Intervista».
Disegni e note appuntate al risveglio sono raccolti in un volume Rizzoli: Il libro dei sogni
«Federico diceva che i suoi sogni non servivano a lui, ma agli altri. Quello è un libro di magia bianca. Se guardi un’immagine la sera, prima di chiudere gli occhi, ci passi su la mano destra in senso antiorario, fai sogni che curano».
E lei li fa? 
«Io no. Io di tutti i libri sull’occulto che mi ha lasciato Federico, ne ho letto solo uno. Ho paura di quello che potrei trovarci ».
Fellini era un iniziato? 
«Lo chiesi a Rol. Mi disse: “È sulla via dell’iniziazione”. Ma lui diceva: “Posso essere solo un allievo diligente”».
Lei ha ereditato i libri di magia e di psicologia del maestro, un centinaio di volumi. 
«Me li diede prima di ritirare l’Oscar alla carriera, che aveva sempre rifiutato: era convinto che Los Angeles gli portasse male. Prima di partire, cominciò a dar via le sue cose, come se avvertisse l’inizio della fine. Sul palco per le prove, ebbe il primo malore. Martin Scorsese chiamò il suo medico, che gli consigliò un intervento sul posto, ma lui tornò Italia. Dove ebbe il primo ictus, poi il secondo, fatale».
Perché mai Los Angeles doveva portargli male? 
«Alla prima visita, nel 1957, quando vinse l’Oscar per La strada, sentì la città negativa. Era molto superstizioso».
Quella volta, sparì misteriosamente. Il regista Henry Bromell sta per girare un film su quel buco di 48 ore, ipotizzando una fuga con una veterinaria. 
«Non andò così: fu arrestato. Lo fermarono, di notte, mentre camminava a piedi, senza documenti. Parve sospetto e nessuno ancora lo conosceva. Poi lui stesso alimentò parecchie leggende. Era un burlone».
Ai tre successivi Oscar mandò la moglie Giulietta Masina. Perché per il quinto cambiò idea? 
«Erano anni che volevano darglielo, ma lui diceva che era iettatorio. Nel 1993, si era in piena Tangentopoli, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro chiamò Giulietta e le disse che se suo marito accettava, per qualche giorno nel mondo si sarebbe parlato dell’Italia non per la corruzione, ma per Fellini».
Altre esperienze al limite dell’ordinario? 
«Negli Anni 60, col suo psicanalista aveva provato la mescalina. Fu così che nacque Satyricon. Mi diceva: “Se ti capita di vederlo sotto qualche sostanza, capirai”».
Quante volte provò la mescalina?
«Smise alla seconda, quando fu fermato mentre stava per uscire da una finestra al quarto piano».
Diceva che della biblioteca esoterica di Fellini ha letto un solo libro. Quale? 
«Uno sui Dialoghi di Seth. Conversazioni medianiche con uno spirito superiore. Federico ne era turbato. Mi disse: “Leggilo, vedrai che avverti una presenza come un pulviscolo, un odore che ti offusca”».
E lei che ha avvertito? 
«Io niente».
Cos’è il legnetto di ciliegio che conserva coi libri di Fellini? 
«Mi disse: “Tienilo: è una bacchetta magica, ma io la uso come segnalibro”».

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