giovedì 4 dicembre 2014

L'amante segreta e fondamentale: per Goethe si chiamava alchimia (o chimica alchemica)

                                     
GIANNI FOCHI
L'amante segreta di Wolfgang

Goethe alla ricerca degli «archetipi» della materia
Wolfgang von Goethe, aveva un'amante?  Bella scoperta! Della lunga storia con Char­lotte von Stein parlano tutte le biografie del genio di Fran­coforte.  Oltre alle amanti più o meno note, egli ne aveva però una segreta.  Lo confessa («meine heimliche Ge­liebte») in una lettera del 1770, e fa anche il nome del­la bella sconosciuta: «Chy­mie», cioè - nel tedesco d'al­lora - la chimica, scienza che plasmò il suo intelletto molto più di quanto si sappia.
Goethe aveva sedici anni nel 1765, quando il padre lo spedì a studiar legge a Lipsia.  Il volere paterno si sarebbe compiuto altrove e con un cer­to ritardo, sia per la tisi e la pleurite che nel 1768 costrinse­ro il giovane a tornare a casa, sia per la sua scarsissima dedi­zione agli studi giuridici.
Quello «studentesco impe­tuoso» (la definizione è sua) alle pandette e ai codici prefe­riva le corse sfrenate a caval­lo, concluse talvolta da cadu­te rovinose, e il vivere all'aria aperta perfino nelle giornate di maltempo. All'università ci andava soprattutto per me­dicina e fisica: quest'inclina­zione avrebbe poi prodotto, per esempio, la sua nota teo­ria dei colori.
A diciannove anni Wolf­gang, sempre più malandato di salute, esce praticamente in fin di vita da un'operazione.  Lo salva il medico di un'ami­ca di sua madre, la von Klettenberg, a cui poi Goethe s'ispirerà per l'«anima bella» del "Noviziato di Guglielmo Meister".  La donna e il dotto­re, appassionati d'alchimia, tra­smettono al giovane la loro passione per questa disciplina, i cui confini con la chimica, intesa come scienza nel senso moderno, rimarranno un po' incerti sino alla rivoluzione chiarificatrice di Lavoisier.
D'altronde in Goethe è ben radicata una propensione al­chimistico-filosofica, Amrine e Zucker hanno scritto che per lui la realtà più profonda della natura non consiste nel­le particelle elementari della fisica o nelle leggi che le go­vernano, ma piuttosto in ar­chetipi («Ideen») da compren­dere nella loro essenza emoti­va e spirituale («geistig»).
Secondo Zimmermann, au­tore di Come il giovane Goethe vedeva il mondo, non si può interpretare la sua opera senza un'attenzione speciale all'interesse alchimistico gio­vanile.  Si penserà subito al Faust, ma più curiosa è la Fiaba, uscita nel 1795 sulla rivista di Schiller «Le Ore»: sul suo arduo simbolismo, tratto in gran parte proprio dal linguaggio iniziatico dell'alchimia, i commentatori hanno versato «fiumi d'inchiostro. Bonaventura Tecchi e altri prima di lui hanno suggeri­to d'abbandonarsi piuttosto al­la musicalità fascinosa dell'in­sieme.  Del resto gli sforzi interpretativi dei suoi contem­poranei divertivano moltissi­mo Goethe, che si rifiutava con decisione di svelare le allegorie dei re d'oro, d'ar­gento e di bronzo e degli altri personaggi misteriosi.
Nell'ultimo decennio del diciottesimo secolo Goethe, ormai più che quarantenne, senza ripudiare la forza poeti­ca propria dell'alchimia, s'ac­costa alla chimica vera e pro­pria, avviata ormai alla digni­tà di scienza moderna.  Da consigliere influente del duca di Weimar, concepisce un progetto poco realistico: riaprire la miniera di rame abbandona­ta d'Ilmenau per risolvere la crisi finanziaria del ducato e i gravi problemi sociali creati dalla disoccupazione.
Ad analizzare di persona il minerale impara in un paio di giorni.  Il fatto che gli ultimi gestori della mi­niera avessero ragione - il minerale risul­ta molto pove­ro - non lo scoraggia.  Va in Slesia, dove è in uso un pro­cesso estrattivo particolarmente efficace, basa­to sul mercurio; ma a Ilmenau non rende nemmeno questo metodo, perché di rame nel minerale ce n'è davvero trop­po poco.  Per puri motivi socia­li, l'estrazione va comunque avanti per qualche anno. 
L'amore di Goethe per la chimica non si smorza neppu­re dopo una seconda delusio­ne. Nel 1783, appena gli giun­ge la notizia del successo dei fratelli Mongolfier nella co­struzione d'un aerostato, cre­de che essi abbiano usato idro­geno e si mette a riempire di questo gas piccoli palloni di prova. Essi però si sgonfiano rapidamente.  Goethe non capisce che la colpa è di minutissime gocce d'acido solforico, usato nella preparazione del­l'idrogeno. Trascinate dal gas, corrodono l'involucro sottile che lo raccoglie.
Eppure la chimica continua a occupare un posto di rilievo nel suo cuore.  Ce ne offrono una testimonianza vistosa Le affinità elettive, che anni fa un film portò all'attenzione del pubblico.  Già il titolo del romanzo esprime il parallelo fra gli esseri umani e il concet­to chimico d'affinità.  Fra i personaggi, Edoardo legge li­bri di chimica, mentre il capi­tano cita la reazione fra acido solforico diluito e calcare: «Si ha dunque una separazio­ne e una nuova composizio­ne, il che giustifica l'uso dell'espressione "affinità elet­tiva", perché s'ha l'impressio­ne che un rapporto venga pre­ferito all'altro, venga eletto in luogo dell'altro».
Per la sua amante spirituale, ormai non più segreta, Goethe arriva a dimenticare gli appun­tamenti con la Stein, come il 5 agosto 1784, quand'è tutto pre­so da un esperimento con l'os­sigeno.  Sette anni dopo, in cu­ra a Bad Pyrmont, inventa un paio di giochetti che ancora oggi vengono ripetuti per chi soggiorna in quelle terme.  Fa galleggiare delle bolle di sapo­ne sulla superficie invisibile che, in una caverna con esalazioni d'anidride carbonica. se­para questo gas pesante dallo strato superiore d'aria respira­bile.  Poi regge uno stoppino acceso, che tende a spengersi se egli lo porta in basso, ma si ravviva appena risollevato.  Partendo per Weimar, Goethe porta con sé alcune bottiglie piene del gas raccolto nella grotta: gli servirà per ripetere in salotto, di fronte agli ospiti, questi due prodigi dentro a bic­chieri da spumante.
Una passione fatta, insom­ma, di passatempi, come que­sti ultimi, o di velleità intellet­tualistiche, come la faccenda della miniera?  In parte sì, ma nella chimica un ruolo importante Goethe l'ebbe davvero, seppure indiretto.  Meinel, stori­co di questa scienza, ha rileva­to che fu lui il motore d'un avvenimento tutt'altro che se­condario: nel 1789 fece istitui­re apposta per essa una catte­dra a Jena, superando dopo lot­ta strenua le resistenze dei pro­fessori di medicina, che in tut­ta l'Europa avevano interesse a mantenerla limitata come par­te secondaria dei loro corsi.
Döbereiner, secondo a oc­cupare questa cattedra, mise a punto un processo che dal­l'amido di patate produceva zucchero, allora scarso a cau­sa della risposta inglese al blocco continentale napoleonico: lo zucchero di canna non poteva più arrivare dall'Ame­rica, e la coltivazione della barbabietola per gli zuccherifi­ci non aveva ancora preso pie­de. Col sostegno finanziario del governo e suo personale, Goethe fece costruire uno sta­bilimento, e partecipava in pubblico alla propaganda, bol­lendo l'amido con acido in un vaso di terracotta.
Döbereiner inventò poi l'accendisigari a idrogeno: il gas s'infiammava spontanea­mente all'aria grazie a un cata­lizzatore di platino.  Goethe gli consigliò invano di brevet­tarlo: il professore si pentì ben presto di non aver seguito il suo consiglio, perché l'appa­recchietto veniva liberamente costruito - e largamente ven­duto - dagli artigiani.
Runge, allievo di Döberei­ner, nel 1819 fu ricevuto dal settantenne Goethe, interessato alle sue ricerche sulla dilatazio­ne della pupilla per effetto di alcaloidi.  Regalandogli una sca­tola di chicchi di caffè, il poeta disse al giovane di lavorare an­che su quelli.  Poco tempo do­po Runge isolò la caffeina.

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