venerdì 6 giugno 2014

La Divina.-Azione etrusca

Dominique Briquel

GLI ETRUSCHI: IL POPOLO DELLA DIVINAZIONE


Da Abstracta n° 33 (gennaio 1989)




L'augure Calcante osserva il fegato di una pecora
(specchio di bronzo inciso)
Città del Vaticano, Museo Gregoriano etrusco

Per i Romani, gli Etruschi apparivano come i più religiosi fra gli uomini: «gente più addetta di tutte le altre alle religiones», dice Livio. Ma è significativo che lo storico romano parli di religiones al plurale, non della religione in senso stretto: intende così le pratiche religiose, e nelle sue Storie sottolinea spesso l'importanza dei riti etruschi – secondo i quali Roma fu fondata da Romolo - e, ancora di più, l'efficacia delle loro tecniche divinatorie, eseguite da specialisti famosi: gli aruspici. Infatti è nel campo della divinazione che gli Etruschi suscitarono l'ammirazione degli altri popoli, e questa era la parte essenziale della loro religione - o delle loro religiones, se si preferisce. Si spiegava così il nome latino di quel popolo – Tusci -, dal verbo greco thuein, «sacrificare»: dunque gli Etruschi sarebbero così chiamati dalla frequenza dei sacrifici che offrivano agli dèi. Ma questi sacrifici non erano soltanto un mezzo per ringraziare le divinità o assicurarsi la loro protezione. Proprio attraverso essi si stabiliva un rapporto fra dèi e uomini, per il quale anche gli dèi rientravano in comunicazione con gli uomini e davano loro indicazioni di carattere generale e particolare. Le offerte di vittime animali, dette hostiae consultatoriae, cioè sacrificate per consultare, permettevano agli aruspici di esaminare il fegato e le altre viscere delle bestie e di trarne le indicazioni contenute, in quanto ivi poste dalla volontà divina. Insomma gli Etruschi erano, dallo stesso loro nome, per eccellenza il popolo della divinazione. Da parte loro, i Romani non furono mai in grado di raggiungere la capacità divinatoria dei loro vicini Etruschi. Conoscevano sì certe formule che noi possiamo qualificare «divinatorie», come la consultazione degli auspici compiuta, prima delle elezioni o di una battaglia, osservando il volo degli uccelli. Ma si trattava di un tipo di pratica divinatoria molto semplice, che dava soltanto una indicazione generica, sulla base di un'unica alternativa: gli dèi sono d'accordo oppure no. Invece gli Etruschi avevano sviluppato un'ampia dottrina a tale proposito, fondata sulla minuta osservazione di ogni segno, mediante il quale si potesse «indovinare», cioè capire la volontà degli dèi, e sulla sua interpretazione. Per gli antichi si trattava senz'altro di una scienza, di una disciplina, e si parlava dunque di Etrusca disciplina. Era scienza indubbiamente etrusca, senza equivalente a Roma, e questo aveva provocato una situazione del tutto eccezionale. Gli Etruschi erano per i Romani, anche se vicini, un popolo straniero; erano stati per secoli i loro nemici, contro i quali avevano sostenuto dure guerre. Avevano però, grazie a quell'Etrusca disciplina, il loro posto nell'organizzazione ufficiale della religione romana - possiamo dire nell'organizzazione religiosa dello stato romano, essendo nell'antichità ovviamente parte del ruolo dello stato anche il provvedere ai rapporti della comunità con gli dèi. Quando accadeva un prodigium, cioè uno di quei segni anormali con i quali gli dèi «comunicavano» qualcosa agli uomini, i senatori di Roma si rivolgevano non ai propri sacerdoti ma agli aruspici etruschi. Il loro senso pratico aveva provveduto all'organizzazione, a tale proposito, di un collegio ufficiale di sessanta aruspici etruschi, che erano a disposizione dello Stato romano. Appare chiaro che gli indovini etruschi, questi aruspici, erano gente di grande peso nella società. Certo uno scettico come Catone poteva affermare che «nessun aruspice poteva guardare un altro aruspice senza ridere»; ma, sicuramente, non erano molti quelli che condividevano questo giudizio negativo. Gli aruspici nella società etrusca erano grandi personaggi, appartenuti alle famiglie dell'aristocrazia, che esercitavano il potere nelle diverse città toscane e che si trasmettevano di generazione in generazione i princìpi della scienza divinatoria nazionale. Si facevano orgogliosamente rappresentare tenendo in mano il fegato della vittima animale che stavano osservando. O si facevano effigiare in statue, vestiti nel costume tipico degli aruspici - berretto con punta alta e mantello corto, chiuso da una grande fibula. In Etruria gli indovini erano persone serie. la divinazione era cosa seria. Non c'era mantica ispirata, lasciata all'ispirazione di un essere al quale gli dèi indicavano direttamente quel che volevano fare sapere all'uomo. Gli Etruschi non praticavano dunque, come invece facevano i Greci, la mantica oracolare, attraverso profeti: non c'era insomma da loro l'equivalente della Pizia di Delfi, e ancora meno degli antichi profeti ebrei.



Due Aruspici e la Porta dell'Ade
Tarquinia, Tomba degli àuguri. VI sec. a.C.


È da pensare che, come i Romani, essi diffidassero dell'idea di un contatto con gli dèi, e del disordine che poteva nascere dall'azione dei profeti. In una società come l'etrusca, dominata da una potente aristocrazia, non c'era posto per un'ispirazione divina che non fosse controllata da coloro che avevano il potere - quei «principi» di cui parlano le fonti classiche. Ammettevano tuttavia che all'origine della loro storia talune figure profetiche avessero svolto un ruolo importante, quasi essenziale. Erano per l'appunto profeti coloro che avevano insegnato agli Etruschi principi della scienza divinatoria: specialmente Tagete, un bambino che era apparso miracolosamente in un campo presso Tarquinia, si era messo subito a parlare e aveva dettato ai suoi ascoltatori le regole dell'aruspicina. Ma questa libera ispirazione, nell'attualità storica, era intesa come irripetibile, una cosa del passato. Ora la parola di quei profeti era fissata per sempre in libri che la riportavano fedelmente e che venivano trasmessi e conservati dalle grandi famiglie aristocratiche. Ora la divinazione si fondava sull'osservazione dei segni, mandati dagli dèi, sulla loro interpretazione fondata in regole precise. Adesso era scienza.

I segni affidati all'osservazione dell'aruspice erano numerosi e di natura diversa. Potevano corrispondere a fenomeni della natura. Ovviamente un terremoto significava qualche cosa, era da interpretare: si attribuiva così a Tagete un trattato di sismologia. Come la terra, poi, anche il cielo dava i suoi segni: l'apparizione di una cometa era un messaggio per gli uomini ed era un prodigio di valore negativo. Anche una pianta poteva fornire indicazioni da interpretare: un aruspice spiega ad esempio al padre di Vespasiano, per la nascita del figlio, che la crescita improvvisa di una quercia a tal momento indicava il suo futuro accesso all'impero. Così pure un animale: nella sua quarta Ecloga, dove preannunzia l'arrivo di una nuova età dell'oro, Virgilio riprende il segno ben conosciuto nei libri etruschi della nascita di un ariete di colore purpureo. Fenomeni umani avevano altresì la loro importanza: durante le grandi crisi che ha vissuto Roma, come la seconda guerra punica, quando risuonò il grido minaccioso di Hannibal ad portas, «Annibale alle porte!», i Romani furono particolarmente attenti a segni che sembravano esprimere l'ira degli dèi contro di loro e che spiegavano i disastri militari: fra tali segni è spesso ricordata la nascita di ermafroditi. Ed erano ancora qui gli aruspici etruschi ad intervenire, e a decidere l'annegamento di quegli esseri anormali, unico modo di salvare la città dal nemico punico!

Davanti a tutti quei segni, anche per i Romani, gli aruspici etruschi erano gli unici capaci d'indicare il loro esatto significato, ma la loro grande specialità rientrava in due settori ben precisi: l'Ars fulguratoria, cioè la scienza dei fulmini, e l'aruspicina in senso stretto, cioè l'esame del fegato delle vittime. Ed è in questi due settori che risalta meglio il metodo e il senso della divinazione etrusca. La scienza dei fulmini, anzitutto, si fondava su uno studio molto preciso del fenomeno. Si distinguevano i fulmini secondo il loro colore: era «bianco», «rosso», o quel che gli Etruschi definivano «nero». Si poneva attenzione alla diversità dei loro effetti, distinguendo il fulmine che brucia, quello che distrugge e quello che trafora. Si osservava soprattutto, con molta attenzione, il punto del cielo da dove partiva il fulmine, qual era il suo percorso - se era diretto o no -, quale era la sua forma - semplice o no. E tutte le possibilità erano registrate nei libri, col significato che si doveva loro attribuire. Naturalmente la fase dell'interpretazione era la cosa più importante e l'osservazione del fenomeno, che noi potremmo definire «scientifica», non era invece nient'altro che la base per conclusioni di tipo divinatorio. Per esempio il tipo d'effetto serviva a dare il senso dell'evento così preannunziato, aiutava a capire se il fulmine rientrava nella categoria, puramente interpretativa, di bona fulmina o di mala fulmina, se si trattava cioè di eventi sul quali l'uomo avrebbe potuto agire oppure no. Il punto di partenza nel cielo lo metteva poi in rapporto con un dio preciso, essendo il cielo suddiviso in settori, ciascuno abitato da un determinato essere divino. E vi era dunque il bisogno di lunghi trattati, per esporre il senso pieno di ogni caso che si poteva presentare!

L'aruspicina, dal canto suo, ci dimostra la stessa mescolanza di osservazione acuta, quasi scientifica, e di princìpi interpretativi di tutt'altro significato ai nostri occhi. Anche qui, si doveva anzitutto esaminare con estrema cautela l'oggetto, per non perdere niente dei «segni» ivi contenuti; abbiamo così figurazioni di aruspici tesi ad osservare il fegato, tenendolo ancora caldo tra le mani, dopo l'uccisione della vittima. Si prestava attenzione ai pur minimi dettagli di forma o di colore. Ma tutto questo serviva soltanto a trarre conclusioni sulla volontà degli dèi, sul destino che si credeva indicato in quell'organo. Ma è forse con l'aruspicina che si capisce meglio il senso di quest'osservazione etrusca dei segni. Abbiamo la fortuna di possedere un documento eccezionale, una specie di «fegato-modello» etrusco, ritrovato a Piacenza, nella pianura del Po, nel 1878. Non si tratta della rappresentazione realistica di un organo reale: anzi la forma dimostra evidenti esagerazioni rispetto alla realtà, privilegiando protuberanze di scarso rilievo anatomico, ma che hanno importanza essenziale a finì interpretativi. E soprattutto son indicate caselle su tutta la superficie dell'oggetto, che dividono così il fegato e danno il nome degli dèi che «abitano» dentro, ai quali dunque rimandano i fenomeni osservati in ciascuna casella. Nella riproduzione si nota anzitutto sul bordo periferico, che gira attorno al fegato, una serie di 16 caselle, con nomi divini. È ovvio che servissero ad «orientare» il fegato, poiché corrispondono esattamente a quel che si sa dell'orientamento del cielo, del cosmos, secondo gli Etruschi. Nello stesso modo, infatti, essi dividevano il cielo il 16 settori, concepiti come le dimore degli dèi; i settori erano poi orientati secondo le assi cardinali - Nord, Sud, Est, Ovest - e altre minori. Ciò vuoi dire che il fegato - che per gli antichi era, per l'essere vivente, più del cuore, il centro della vita - veniva concepito come un piccolo cosmo, un microcosmo, posto in corrispondenza col grande, col macrocosmo. Così si poteva a buon diritto trame indicazioni interessanti anche per fenomeni generali, che interessavano il mondo e l'uomo che viveva dentro di esso: microcosmo e macrocosmo erano insomma in corrispondenza perfetta, in piena armonia fra di loro. E questa armonia era voluta dagli dèi, faceva parte del destino che comandava tutto.



Modello bronzeo del Fegato di Piacenza


L'importanza data alla divinazione dagli Etruschi può oggi sembrare incomprensibile, effetto di stupide fantasie, come del resto appariva già a Catone. Ma in realtà era un fenomeno «scienificamente» articolato e profondamente radicato nella cultura e nella mentalità di quel popolo. Era in altri termini inteso come una percezione religiosa della realtà, piena di segni che le divinità mandavano al loro uomo, per guidarlo nel suo comportamento. Questo atteggiamento particolare degli Etruschi di fronte all'esistenza è stato perfettamente caratterizzato da Seneca, che nelle sue Questioni naturali scrive: «In realtà, poiché gli Etruschi riconducono tutto alla divinità, sono convinti che gli eventi (come i fulmini, dei quali lo scrittore si sta occupando) non hanno un significato perché sono accaduti, ma sono proprio così accaduti affinchè abbiano in tal modo uno specifico significato». Questa attitudine era poco comprensibile già per Seneca, abituato a considerare un fenomeno come i fulmini con gli occhi freddi della scienza. Il filosofo aveva studiato le dottrine che in proposito erano state elaborate prima di lui dai filosofi e dagli scienziati greci. Nelle pagine della sua opera dove tratta del fenomeno, ne dà (o possiamo dire, cerca di darne, visto che per noi molte di quelle spiegazioni appaiono infantili...) una spiegazione puramente fisica, senza fare intervenire né dio né destino.

Per noi naturalmente lo sforzo dell'aruspice etrusco, teso ad esaminare tutti i particolari della caduta di un fulmine, o a scrutare i minimi dettagli di un fegato, appena strappato all'animale ucciso dal sacrificatore e ancora grondante di sangue. sembra ancora più incomprensibile, quasi una cosa assurda… Era però per gli Etruschi una maniera di percepire il mondo come una realtà intellegibile. E forse era per loro anche un mezzo per vivere in un mondo non assurdo, non privo di senso, nel quale l'uomo poteva condurre una vita che traeva il suo senso dalla sua piena armonia con l'insieme del cosmo.




BIBLIOGRAFIA

* Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l'antiquité I, II, III, IV, Parigi, 1879-1882;
* Thulin, Die etruskische Disciplin Gòteborg, 1906-1909;
* Bloch, tr.it. Prodigi e divinazione nel mondo antico, Newton Compton Editori, Roma 1977.
* Maggiani, Qualche osservazione sul fegato di Piacenza-. Studi Etruschi, 50, (1984), 54- 88;
* Mac Bain, Prodigy and Expiation: a Study in Religion and Politics in Republican Rome, (collezione Latomus, n.177), Bruxelles 1982.
* Cristofani, Il cosiddetto specchio di Tarchon: un recupero e una nuova lettura, in Prospettiva, n° 41, Aprile (1985), 4-20.


Dominique Briquel – da Da Abstracta n° 33 (gennaio 1989) – Stile Regina editrice

(Serie curata da Sergio Ribichini)

Nessun commento: