mercoledì 28 maggio 2014

Il ritorno di antichi riti, fra cristiianesimo e radici pagane

Mancano pochi giorni alla Grande Rogazione di Asiago, un evento aperto a tutti coloro che vogliano condividerlo con rispetto assieme a noi.  E’ bene sapere però che non si tratta di un avvenimento turistico o di una passeggiata, ma di un cammino di fede ed una tradizione a cui il nostro Altopiano è molto legato, ed in tale spirito andrebbe affrontata.

Di questo parla l'articolo estratto dal numero del giornale L'ALTOPIANO in edicola dal 24 aprile e che potete leggere al seguente link http://bit.ly/1hqVtx7
Mancano pochi giorni alla Grande Rogazione di Asiago, un evento aperto a tutti coloro che vogliano condividerlo con rispetto assieme a noi. E’ bene sapere però... che non si tratta di un avvenimento turistico o di una passeggiata, ma di un cammino di fede ed una tradizione a cui il nostro Altopiano è molto legato, ed in tale spirito andrebbe affrontata.
Di questo parla l'articolo estratto dal numero del giornale L'ALTOPIANO in edicola dal 24 aprile e che potete leggere al seguente link http://bit.ly/1hqVtx7

Thoreau, immerso nella natura ritrova la sua anima

Thoreau, l’uomo del bosco
di Lorenzo Pennacchi - 27/05/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente 



Anticipando di circa un secolo la concezione di “Ecologia profonda”, del filosofo norvegese Arne Naess, Thoreau considerava l’uomo come una singola parte integrante di un Tutto, ovvero la Natura nel suo insieme. Di conseguenza, la nascente società industriale, distruggendo la Terra, minava alla sopravvivenza dell’umanità. Visionariamente individuò nel progresso industriale la causa del regresso umano, sempre più materiale e meno spirituale. L’unica possibilità di salvezza risiedeva nella riconnessione con la Totalità.

 
  
ThoreauQuote354

“Andai nei boschi perché desideravo vivere deliberatamente, affrontare solo i fatti essenziali della vita, e vedere se non potessi imparare cosa avesse da insegnare, senza scoprire, giunto alla morte, di non aver vissuto” 
Henry David Thoreau nacque a Concord (Massachusetts), il 12 luglio del 1817. Figlio di un imprenditore, decise di non seguire la sua strada, rinunciando così alla certezza di un futuro agiato. La vita di Thoreau può essere, infatti, vista ed interpretata come un infinito percorso spirituale, una continua volontà di mettersi e mettere i dogmi della società in discussione. Si laureò in filosofia ad Harvard nel 1837 e fu uno dei massimi rappresentanti di quel movimento di idee che, con esplicito richiamo a Kant, prese il nome di Trascendentalismo, caratterizzato dall’esaltazione dei rapporti tra uomo e natura e l’opposizione al razionalismo.  Fu allievo ed amico di Ralph Waldo Emerson, un innocuo idealista immerso nei suoi pensieri e nella contemplazione dalla natura, autore, tra l’altro, del celebre saggio Nature. Ma ad Henry David non bastava studiare la natura, egli voleva essere Natura. Egli, come pochissimi altri sono riusciti a fare, riuscì a coniugare alla perfezione il suo pensiero filosofico alla sua vita pratica. Non passò il suo tempo dietro ad una scrivania, a leggere migliaia di libri e scrivere pagine su pagine di idee, ma le mise in atto nel più grande libro accessibile a tutti: la wilderness, quella Natura selvaggia che, già nei primi decenni dell’Ottocento, incominciava a venir distrutta per far posto alle fabbriche, ai grandi palazzi ed al grigiore desolante dell’industrializzazione.
Anticipando di circa un secolo la concezione di “Ecologia profonda”, del filosofo norvegese Arne Naess, Thoreau considerava l’uomo come una singola parte integrante di un Tutto, ovvero la Natura nel suo insieme. Di conseguenza, la nascente società industriale, distruggendo la Terra, minava alla sopravvivenza dell’umanità. Visionariamente individuò nel progresso industriale la causa del regresso umano, sempre più materiale e meno spirituale. L’unica possibilità di salvezza risiedeva nella riconnessione con la Totalità. Fu per questo che, il 4 luglio del 1845, si allontanò da Concord e raggiunse a piedi il piccolo lago Walden, circondato dalla foresta e lontano dalla civiltà. Qui edificò una capanna, coltivò la terra per autoprodursi i mezzi di sussistenza e visse a contatto con quella Natura tanto essenziale quanto meravigliosa. Ciò che ne derivò da questa esperienza fu “Walden, ovvero la vita nei boschi, pubblicato nel 1854. In queste pagine è possibile scorgere l’intimità dell’esperienza vitale intrapresa dal pensatore. La lettura della descrizione dei particolari, dei piccoli gesti e delle azioni quotidiane sono in grado di comunicare al lettore sensazioni armoniose, incompatibili con il caos contemporaneo. L’elogio rivolto alla solitudine, intesa come tentativo di connessione con qualsiasi oggetto naturale, appare come una richiesta di pace in un mondo che sempre più, nella sua folle corsa, travolge i più deboli. In “Walden”  Thoreau, vegetariano per diversi periodi della sua vita ed attivo contestatore della costruzione del grande mattatoio di Chicago, riflette sul rapporto con gli altri animali. È convinto che nel suo progressivo sviluppo, la razza umana smetterà di cibarsi di carne animale, così come ha smesso di mangiare quella umana. Rimase in prossimità del lago per più di due anni, fino al 6 settembre del 1847, quando: “ho lasciato i boschi per una ragione altrettanto buona di quella per cui ci sono andato. Forse mi sembrò di avere molte altre vite da vivere, e non potevo riservare altro tempo per quella”.
Ma per capirne una, di quelle tante sue altre vite, occorre fare un passo indietro. Nel 1846 gli Stati Uniti avevano dichiarato guerra al Messico, per sancire l’annessione del Texas e della California. Thoreau si rifiutò di pagare le tasse per finanziare quell’atto di aggressione ingiustificato, consapevole del fatto che esso poteva essere attuato solamente con il consenso e con il contributo dei cittadini. Di tutta risposta fu incarcerato, ma quando il suo amico Emerson gli chiese: “Dio mio, David, che cosa ci fai tu lì dentro?”, egli rispose: “Dimmi tu, piuttosto, caro Waldo: che cosa ci fai là fuori?”, dimostrando grande coerenza con i suoi principi, anche se fu liberato poco dopo grazia ad una cauzione, non richiesta, pagata dalla zia. Il risultato di quell’esperienza fu la pubblicazione, nel 1849, di “Disobbedienza Civile”, che al suo interno racchiude: da un lato la critica all’ipocrisia del governo statunitense; dall’altro, in opposizione al potere assoluto della maggioranza, la centralità di ogni singolo uomo capace, attraverso le proprie azioni, di modificare scenari collettivi. L’essenza di questo vero e proprio manuale di resistenza non violenta, fonte di ispirazione di Gandhi come di Martin Luther King, può racchiuso in questo pensiero: “Una minoranza che si conforma al volere della maggioranza, perde ogni potere, non è più neanche una minoranza, ma diventa irresistibile quando sbarra il passo con tutto il suo peso”.
Henry David non fu mai un accademico e probabilmente per questo ancora oggi viene raramente studiato nelle università. Alcuni lo considerano un filosofo, altri un letterato, altri ancora un semplice viandante. Questa visione così negativa è paradossale alla luce dell’incredibile influenza che ha avuto in pensatori, correnti e movimenti successivi, e soprattutto della continua attualità del suo pensiero. Come ha sostenuto il filosofo Stanley Cavell: “[Thoreau insieme ad Emerson] furono tra le menti filosofiche più sottovalutate che l’America abbia mai prodotto”. Ma lo spirito libero del Concord, abituato ad essere pesantemente criticato anche dai suoi contemporanei, di certo dalla vita non ha ricercato la fama, ma valori superiori che probabilmente trovò specialmente negli ultimi anni della sua vita. Poco prima di morire, nella sua città natale nel 1862, raccolse tutti i suoi pensieri, concepiti durante lunghissime camminate animate dal suo antico ma sempre presente amore per la Natura, nel saggio “Camminare”. “Quando ho bisogno di ricreare me stesso vado in cerca della foresta più buia, della palude più fitta e più impenetrabile e, a occhi cittadini, più tetra”. Il cammino non è un esercizio fisico, ma un’intensa attività spirituale. Camminare significa scoprire se stessi, entrando in relazione con il Tutto. È un’arte che permette di aprire gli occhi davanti al rischio di autodistruzione, a cui sta andando incontro la Terra, nel 1862 come nel 2014, o meglio oggi più di ieri. E allora si può affermare che il senso della vita risiede nella scoperta di questo sentiero capace di collegare il pensiero all’azione, il finito all’infinito, l’uomo alla Natura. Tutti noi, in fondo, necessitiamo di questo scopo: “se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino”.

lunedì 26 maggio 2014

Pensieri e riflessioni su Bataille sul sacrificio e il sacro.....



In Georg es Bataille (1897-1962) il sacrificio non è un tema: è il tema per eccellenza, quello in cui si raggrumano tutte le altre questioni (il problema della guerra, della religione, della festa).

E Bataille, pur senza affermarlo esplicitamente, sta quasi suggerendo che la catena mezzo/fine è più antica rispetto a quella causa/effetto. Con la creazione di utensili e col lavoro, si costruisce il mondo delle cose e la conoscenza esterna: se l’animale non ha una realtà oggettiva, la trascendenza umana è onniavvolgente, nel senso che l’uomo, per essere tale, deve riportare dinanzi a sé ogni altra cosa. Quello animale è, per dirla con Edmund Husserl, un mondo di evidenze originarie e contraddistinto dall’istantaneità eterna, nel senso che l’animale vive nell’istante (non pensa alla propria nascita né alla propria morte); al contrario, quello della trascendenza è il mondo segnato dalla temporalità, che nasce come durata. Quest’ultima è un flusso continuo (si avverte l’eco di Bergson), è negazione dell’eternità dell’animale: nella temporalità della trascendenza, gli oggetti hanno una loro precisa durata, anche se poi finisce per prevalere una sorta di “estasi del futuro”. Ciò induce Bataille a spostare l’attenzione sulla società industriale, che è l’apice della trascendenza. Ma dell’immanenza, a rigor di logica, non possiamo dire nulla, perché parlarne vuol dire oggettivarla e, dunque, entrare già nella trascendenza. La conseguenza è che nell’immanenza non posso conoscermi, giacchè la conoscenza implica sempre, per così dire, uno sdoppiamento tra l’Io e il non-Io: ciò non di meno, ciascuno di noi reca in sé il ricordo sfuocato del proprio stato fetale, in una sorta di reminescenza platonica; la nostra stessa esistenza è costellata da eventi che lavorano per distruggere la trascendenza; dei quali, forse il più importante è il sacrificio. Per come siamo abituati a pensarlo noi, esso mette in contatto l’uomo con la trascendenza divina: ma per Bataille esso non fa che distruggere la trascendenza; è una delle grandi cifre dell’esistere umano, perché ne mette in questione l’essere nella misura in cui lotta contro la trascendenza. Ma Bataille non propone un nostalgico ritorno all’immanenza: egli sceglie piuttosto il paradosso, che lo induce a tenere insieme i due opposti (il ritorno all’immanenza e il non poter prescindere dalla trascendenza), facendoli essere coessenziali. Roger Callois distingue tra “sacro bianco” e “sacro nero”: il primo permette di incatenare l’ordine delle cose, aprendo la via al traffico tra uomini e dèi; ma il secondo scatena, ha un aspetto terrifico e violento. Questi due sacri hanno però un punto di contatto, nella misura in cui l’incatenamento può avvenire solo tramite lo scatenamento; è soltanto il varcare il confine che mi permette di vederlo e prenderne coscienza. Ora, nel sacrificio di cui scrive Bataille sono presenti i due sacri, giacché esso “distrugge ciò che consacra”, in un “consumo definitivo” e irreversibile. Il principio del sacrificio è allora la distruzione: sacrificando, si desidera distruggere la cosalità della cosa, restituendo la vittima al regno da cui proviene (l’immanenza), sottraendola all’ambito dell’utilità (non a caso si sacrificano sempre cose utili). Bataille dedica alcune pagine allo studio antropologico del “potlach”, di quella pratica, diffusa presso certe tribù indiane, con cui il capo-tribù, quando riceve il capo di un’altra tribù, fa un sacrificio con cui spreca e distrugge risorse per dimostrargli la propria sovranità e per legare la controparte, che si vede così costretta a compiere a sua volta un sacrificio ancora più ricco. Il sacrificio è per Bataille caratterizzato dalla morte, la quale – quasi heideggerianamente – non è mai la mia morte, è sempre quella altrui. E con la morte torno ad essere una goccia nell’acqua, ritornando all’immanenza e riconfluendo così nell’insieme magmatico in cui tutto è tutto. Sicchè il sacrificio è la porta che reintroduce nella violenza, nella morte, nell’immanenza: ma è qualcosa che è impossibile e, insieme, necessario. L’erotismo stesso è il momento in cui l’essere discontinuo muore per far vivere un altro essere discontinuo: non è un caso che in francese “orgasmo” si dica “petite morte”, cioè “piccola morte”. Nell’atto erotico si smarrisce il principio di individuazione: tanto l’erotismo quanto il sacrificio implicano la morte. Sartre disse che quella di Bataille era una “buona piccola estasi panteistica”: e alle critiche sartreiane, Bataille risponde in maniera un po’ scontata e banale, limitandosi a riportare e commentare i passi in cui viene accusato. In definitiva, il sacrificio è un rifluire nell’Uno-Tutto: ma nella consapevolezza che si tratta di un riflusso impossibile e al tempo stesso necessario, in un’ottica del paradosso. 

Il corpo e la carne. La comunità secondo Georges Bataille e Simone Weil

di Maria Esposito - 12/01/2006

Fonte: gianfrancobertagni.it

 

L'accostamento di questi due nomi risponde ad una esigenza precisa: l'analisi del
dialogo serrato che impegna i due autori all'interno di un rapporto divaricato da
differenze irriducibili. L'incontro avviene nella Parigi degli anni `30, stagliandosi su
un piano di ampie divergenze: malgrado l'impegno politico comune nell'ambito
della sinistra rivoluzionaria francese, e nonostante la fascinazione che Bataille subì
per la figura di Simone Weil, un elemento di reciproca estraneità sembra marcare
l'impossibilità di condivisione politica e filosofica. La concezione stessa dell'azione
rivoluzionaria, che per Weil è azione metodica, per Bataille scatenamento
passionale, va disponendosi come uno degli elementi di frattura più significativi
1
.
Ma è precisamente qui che si colloca l'interesse del confronto: perché la frattura
nelle posizioni teoriche e nei metodi di azione politica, non è che parte integrante
della natura del rapporto filosofico che li lega, in cui connessioni tematiche e
convergenze teoriche non assumono mai un andamento lineare, simmetrico,
unificabile. Non è un caso che il punto a partire dal quale si intreccia il dialogo tra i
due autori coincida con l'affermazione di un rifiuto: l'affermazione della
impossibilità del Bene. L'impossibilità del Bene viene da entrambi affermata nella
tensione di un desiderio di bene per sua natura irriducibile ai principi di morale per
cui è realizzabile una buona azione, è possibile una buona volontà. Il Bene, per
Bataille e Weil, manca sempre. È impossibile, irrappresentabile, senza opera: è il
posto vuoto, il luogo dell'assenza. Se i prodotti dell'agire umano non soddisfano mai
il nostro desiderio di bene, se niente è bene, allora non rimane altro che desiderare
niente
2
, dissipando l'energia volontaria indirizzata a costruire positivamente un buon
agire. Qui si incastra la questione della comunità: nella perdita del soggetto di
potere, al di là del legame sociale, fuori del vincolo contrattuale. Si tratta di una
sottrazione affermativa: la perdita dell'io come tramite che dischiuda all'altro. Il
movimento di desoggettivazione condiviso dal pensiero dei due autori trova però
non soltanto un approdo asimmetrico (dépense nell'uno e décréation nell'altra), ma,
a conferma della peculiare trama del rapporto che li unisce e insieme divide,

1
Cfr. S. Pétrement, La vie de Simone Wei, Editions Fayard, vol. I, Paris 1973 (trad. it. La vita di Simone Weil, Adelphi,
Milano 1994 p. 280). Si legge da una minuta di lettera di Weil indirizzata al Cercle communiste démocratique:
« Bataille mi ha scritto che desiderava che io aderissi al Cercle, perché molti compagni hanno su di esso - dice - delle
riserve gravi quanto le mie e forse proprio le stesse (...) Ma la rivoluzione è per lui il trionfo del razionale, per me del
razionale; per lui una catastrofe, per me un'azione metodica di cui ci si deve sforzare per contenere i danni (...) Cosa
c'è in comune?".
2
S. Weil, La pesanteur et la grâce, Plon, Paris 1948, p. 99 (trad. it L'ombra e la grazia, Edizioni di Comunità, Milano
1951 p. 136).
incontra un esito comunitario radicalmente divergente: la problematica confluenza
nell'intimità dell'essere in Bataille, la distanza da qualunque comunione e
l'assunzione di una irriducibile esteriorità in Simone Weil.
Il movimento weiliano di decreazione dell'io assume l'impossibilità del Bene come
criterio di orientamento del desiderio. Se il Bene, l'a?a??? platonico al di là
dell'essenza e dell'esistenza, è il criterio del reale
3
, è cioè quella cosa il cui solo
nome basta a dare certezza che le cose di questo mondo non sono beni
4
, occorre che
il desiderio sia svuotato della pretesa acquisitiva indirizzata agli oggetti e orientato a
vuoto come uno sguardo che volge all'irraggiungibile
5
. L'individuo si ritrae nella
immobilità di un'attesa che non conosce intenti distruttivi. La sopportazione del
vuoto è quello stato immobile attraverso il quale lasciare emergere l'impersonalità di
un movimento che crea una battuta d'arresto tra intenzione appropriante del soggetto
e valore di scambio dell'oggetto. La cosa non viene distrutta ma svuotata della
carica immaginaria che l'energia supplementare vi proietta, e consegnata alla
essenzialità del suo valore d'uso. La decreazione, dunque, non recide l'utilità
dell'oggetto, non sacrifica la cosa, ma spezza il legame idolatrico per cui si
congiungono i piani del bene e del necessario
6
, e si fa della cosa un bene. I
meccanismi di acquisizione dell'io, indotti dal prestigio sociale che la forza
promuove, vengono azzerati nella passività di un movimento che, se da un lato esige
lo svuotamento del desiderio, dall'altro chiede l'adesione incondizionata all'ordine
del mondo. Obbedire incondizionatamente alla materialità delle condizioni umane è
il gesto ineludibile della decreazione. Questo significa assumere la necessità, che
nomina la totale assenza di Bene in quanto rete di limiti che ci imprigiona, come il
solo bene di questo mondo. L'amore di ciò che non esiste
7
, il Bene platonico, e
l'amore di ciò che esiste in quanto radicale assenza di Bene, la necessità, connotano
l'esigenza comunitaria del pensiero weiliano. È la materia sensibile - materia inerte e
carne, scrive Weil
8
- il vaglio del reale nel pensiero: è la carne che lavora la materia,
e vi aderisce fino a diventare essa stessa materia docile, il filtro del desiderio in
quanto amore soprannaturale. Il desiderio di infinito non ha presa che nella
finitudine della carne, nella durata del tempo e nella estensione dello spazio: è
dunque il mondo - il luogo in cui il desiderio dell'impossibile si orienta, situandosi
di volta in volta in una condizione singolare e materiale. Il movimento simultaneo di
queste forze opposte - il desiderio di incondizionato incastrato nella necessità
condizionale di tempo e spazio - produce un attrito che ferisce, strappa, e taglia
letteralmente in due l'essere umano. Il corpo in cui si incarna il desiderio sperimenta

3
Cfr. Platone, La Repubblica, Libro VI ­ 509a, Edizioni Laterza, Bari 1997, p. 443.
4
M. Blanchot, L'entretien infini, Gallimard, Paris 1969 (trad. it. L'infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1977, pp.
146).
5
S. Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950 (trad. it. Quaderni, vol. IV, Adelphi, Milano 1993, p.
253).
6
Cfr. Platone, La Repubblica, 493c, op. cit., p. 405.
7
S. Weil, Quaderni, IV, op. cit., p. 224.
8
S. Weil, Quaderni, vol. IV, op cit., p. 398: "Per l'uomo che vive in questo mondo, quaggiù, la materia sensibile -
materia inerte e carne - è il filtro, il vaglio, il criterio universale del reale nel pensiero, nell'intero ambito del pensiero,
senza che niente ne sia eccettuato".
la perpetua divisione da sé, l'incessante alterazione della propria autosufficienza:
carne obbediente come materia passiva. Il soffio si incarna nel corpo producendovi
un'alterazione permanente, così come il Verbo è Anima del Mondo: spirito
crocifisso alla vastità, "disperso in frammenti attraverso lo spazio e la materia
9
". È
quanto Simone Weil prende dai pitagorici
10
, dal cristianesimo, da alcuni frammenti
della dottrina manichea
11
, cogliendovi un filo rosso di singolare continuità: il ?????
unione dei contrari. Vuol dire che Dio è uno nello smembramento della carne del
Figlio. Non l'Uno indiviso e poi frammentato, ma l'Uno nella relazione simultanea
di divisione, nella relazione trinitaria di Dio a sé, nella separazione simultanea tra
Dio e Dio. Per questo, è avanzabile un'idea weiliana di comunità, il cui termine -
communauté - non si affaccia mai direttamente nella sua scrittura, attraverso il
concetto di incarnazione. L'incarnazione, che non si esaurisce nell'organismo
individuale, fa intravedere l'increato. Ma l'increato - il grano di senape dei Vangeli -
non è che il comune punto di vuoto
12
: il comune inappropriabile. È l'esteriorità
incarnata nel corpo ma irriducibile alla presa umana. Gli scritti weiliani, storico-
politici e religiosi, nominano questa esteriorità dell'inappropriabile che non farà mai
da fondamento per un rigenerato corpo mistico, in grado di unificare tutti in un Uno.
L'unità fa parte per l'autrice dello sfondo totalitario ed idolatrico dei sistemi sociali
e delle speranze di salvezza. La comunità si incarna solo per via di tramiti, di
mediazioni, di µeta??: l'ambiente umano, l'amicizia, l'amore soprannaturale. È alla
luce della questione dell'incarnazione che, nonostante le feconde incursioni testuali
negli ambiti dell'antica gnosi - la dottrina manichea, il catarismo occitano
13
- il
pensiero weiliano non si risolve mai nella dualità dello gnosticismo, dal momento
che il mondo è l'unico possibile, l'unico in cui sperimentare - incarnando - un
desiderio di incondizionato.
Se con il movimento della decreazione la Weil lascia che il vuoto di questo desiderio
s'incarni come una inappropriabile esteriorità, in Bataille, il desiderio di bene che ha
nulla per oggetto
14
, volge in un movimento di eccesso ­ una dépense ­ tale da
investire soggetto ed oggetto nella spirale di un vortice in cui l'oggetto è annientato,
e il soggetto reso estatico nella breccia del movimento. Il rifiuto della morale
tradizionale che identifica il bene con l'utile, spinge l'autore ad affermare che il
bene non è afferrabile se non nel luogo convenzionalmente attribuito al male, perché
consistente in un movimento di apertura all'altro ­ la comunicazione ­ che, violando
i limiti di conservazione degli esseri, arreca un danno sostanziale, se non la perdita

9
Cfr. S. Weil, Cahiers, Plon, Paris 1956 (trad. it. Quaderni, vol. III, Adelphi, Milano 1988, p. 36).

10
Passo di Proclo su Ferecide, Cfr. G. Colli, La sapienza greca, vol II, Adelhpi, Milano 1978, p. 103: "...Ferecide
diceva che Zeus, quando stava per creare, si era trasformato in Eros, appunto perché, foggiando il mo ndo dai contrari,
lo condusse alla concordia e all'amicizia, e in tutte le cose seminò identità e unione pervadente l'universo":
11
Cfr. Frammento di Turfa'n T II D 178 in E. Benveniste, Yggdrasill, p. 9, Paris Aôut 1937, cfr. H.C. Puech, Alla
ricerca della gnosi, Adelphi, Milano 2000, p. 274.
12
S. Weil, Cahiers, vol. Quaderni, vol. III, op. cit p. 177: "L'Incarnazione, presenza di ciò che non pesa, nel mondo
della gravità, sotto forma di un punto pesante".

13
Cfr. D. Roché, Cahiers d'études cathares, Paris 1954 - 1955. Cfr. S. Weil, Lettre à Déodat Roché, in Penseés sans
ordre concernant l'amour de Dieu Gallimard, Paris 1963 (trad. it L'amore di Dio, Borla, Torino 1968, pp. 135- 139).
14
G. Bataille, Memorandum, in OEuvres complètes, t. VI, Gallimard, p. 317: "Nella comunicazione, nell'amore, il
desiderio ha nulla per oggetto. È così in ogni sacrificio".
dell'identità soggettiva. Il desiderio del `bene', dunque, non muove ad un
compimento, ma ad una radicale contestazione del proprio
15
: sfugge al vincolo
identificante dell'oggetto separato per delinearsi come desiderio del non-ente,
desiderio di un dono rischioso perché comunicativo. Nella pratica del sacrificio ­ e
qui si insinua la pericolosa ambivalenza del pensiero batailleano - Bataille individua
la specifica modalità relazionale capace di schiudere la sostanza dei soggetti al nulla
della comunicazione. La cosa - l'uomo stesso è la cosa
16
- non comunica se non è
violata: la cosa custodisce un'intimità
17
- néant - attingibile solo nella violenza di un
atto capace di infrangere l'oggettivazione prodotta dall'ordine discorsivo delle cose.
Nella dinamica del sacrificio, il soggetto fuoriesce per il riverberarsi in un atto che
egli stesso ha compiuto. Ciò che resta è l'atto: l'intima relazione tra gli esseri spogli
di identità. L'effrazione del limite nel corpo sacrificale consente all'autore di
pensare la comunità come rottura dell'accomunamento sociale, fuoriuscita dal
regime di significazione discorsiva, taglio della unificazione omologante che opera
da criterio di individuazione. Nei punti di rottura inferti all'integrità dei corpi si
dischiude una zona di spossessamento, di penetrabilità e di contagio delle reciproche
alterazioni.
Fin qui, una prima scansione del concetto di comunità in Bataille. La questione
dell'intimità sacrificale appare tuttavia un punto denso di risvolti problematici:
perché è ciò che da un lato segna l'acquisizione più importante del suo pensiero,
come lo squarcio di un'intuizione che egli più di altri colse ­ ma dall'altro, è anche
il nodo teorico in cui si insinua un'ambivalenza che tende a riaffermare ciò che
l'autore prova a demolire. Come Nancy rileva
18
, l'intimità di Bataille nomina il
fuori-di-sé, il rovesciamento dei soggetti ad una esteriorità fondamentale
19
,
l'esposizione ad un fuori inappropriabile e non immanentizzabile. Esperienza
insostenibile se non nella sospensione sovrana di un istante, l'esteriorizzazione
batailleana dei corpi rischia tuttavia lo scivolamento in una zona di opacità e di
indistinzione che annulla la distanza, la spaziatura tra gli esseri comunicanti. Il
pericolo del dono sacrificale sta dunque nel fatto che la comune espropriazione delle
identità pervenga ad una effusione, ad un comune identico bordo. Ad un rovesciato
accorpamento. Così come la questione del risveglio all'intimità tradisce in Bataille
una rielaborazione del dualismo tra spirito e materia in una forma di gnosi
paradossale
20
, in cui l'interiorità è l'immanenza, e il polo materiale, il tramite dello
svelamento all'interiorità.

15
R. Esposito, Communitas - Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998.
16
G. Bataille, OEuvres complètes, t. VII, p. 312, Gallimard, Paris 1976.
17
G. Bataille, Théorie de la religion, in OEuvres complètes, vol.
VII, op. cit. pp. 281-351 (trad. it Teoria della
religione, SE, Milano 1995, pp. 43-55).
18
J. L. Nancy, La communauté désoeuvrée, Christian Bourgois Éditeur, Paris 1986 (trad. it La comunità inoperosa,
Cronopio, Napoli 1992, p. 69).
19
M. Blanchot, La communauté inavouable, Les Éditions de Minuit, Paris 1983, (trad. it.
La comunità inconfessabile,
Feltrinelli , Milano 1984, p. 16).
20
Cfr. M. Ciampa, La gnosi paradossale in Georges Bataille, in A.A.V.V, Georges Bataille - Il politico e il sacro, pp.
22-28, Liguori, Napoli 1988; F. Di Stefano, Appunti su Bataille e il negativo, pp. 162- 163, in A.A.V.V. Sulla fine
della storia, Liguori, Napoli 1985.
Questa, in estrema sintesi, la difficoltà concettuale che costringe la teoria batailleana
del sacrificio in una direzione capace di ribaltarla nel rovescio della sua intenzione
originaria. Nessun atto sacrificale, per quanto teso al gesto del dono, può recuperare
una comunità tra esseri finiti che non sia opera di morte. L'opera di morte si iscrive
nel sacrificio come la sua destinazione. Nonostante gli sforzi di Bataille tesi a
rinunciare ad una qualsiasi operatività transpropriativa
21
, e nonostante egli pensi al
sacrificio come fine della dialettizzazione del sacrificio, senza transpropriazione o
identificazione mimetica, il suo pensiero della comunità ancorato alla pratica
sacrificale rimane interno al movimento dialettico di un soggetto, un oggetto, e una
fusione. La presa di distanza dalla logica fascista di incorporazione nell'Uno, per cui
la fine della vittima è remunerata dalla trasfigurazione nel vincolo immanente di una
potenza fuori-legge, va tuttavia evidenziata nel fallimento della più significativa
esperienza comunitario-sacrificale di cui Bataille fu promotore: Acéphale
22
. Il corpo
di Acéphale non soltanto nomina il sacrificio del capo, contro il meccanismo di
identificazione in un corpo unitario, ma il sacrificio del sacrificante stesso, la
decapitazione del soggetto. È qui che il modello sacrificale rivela lo scacco. Perché
l'impossibilità stessa di rinunciare a quanto il sacrificio esigeva - il suicidio del
sacrificatore che si fa vittima - mostrò a Bataille l'inservibilità di un modello che
non può aversi se non attraverso una dialettica di soggezione e assoggettamento e
non può compiersi se non nell'opera della morte.
Esiste uno scarto impenetrabile, dunque, e il sacrificio non è che una commedia
23
.
Lo scarto è dato dalla mia presenza alla morte d'altri, come rileva Blanchot ne La
comunità inconfessabile
24
. È dato dalla persistenza dello sguardo dell'altro che si
assenta morendo. Questo pone l'individuo fuori-di-sé, ma senza alcuna possibilità di
mimesi. È uno scarto inassimilabile, sconosciuto alle convulsioni dell'immanenza
animale. La seconda scansione del concetto di comunità in Bataille si registra qui.
La teoria della comunicazione batailleana dice di un da ultimo incomunicabile
25
. Un
bordo inviolabile, irriducibile, impenetrabile al contagio. La comunità non è che
questo: la comunicazione di una impenetrabilità. Un limite invalicabile è il varco
che si dischiude tra me e l'altro.








21
Cfr. J. L. Nancy, Une pensée finie, Éditions Galilée, Paris 1990 (trad. it L'insacrificabile, in Un pensiero finito,
Marcos y Marcos, Milano 1992, pp. 213 - 263).
22
G. Bataille, Acéphale, in OEuvres complètes, vol I, Gallimard, Paris 1970 (trad. it.
La congiura sacra, Bollati
Borlinghieri, Torino 1997).
23
Cfr. G. Bataille, Hegel, la mort et le sacrifice, in OEuvres completès, t. XII, Gallimard, Paris 1988 (trad. it. Hegel, la
morte e il sacrificio, in A.A.VV, Sulla fine della storia, op. cit, p. 83).
24
M. Blanchot, La comunità inconfessabile, op. cit, pp. 19- 20.
25
Cfr. G. Bataille, La littérature et le mal, in OEuvres complètes, t. IX, Gallimard, Paris 1979, (trad. it La letteratura e
il male, SE, Milano 1987, pp. 182, 183).

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

Il sesso di Bataille è radicato nella dimensione del Sacro, una volta svuotata dell'idea di Dio, che com'è noto un certo giorno "è morto". A proposito di questa morte alquanto complicata, bisogna ricordare che per Bataille ebbe un riscontro biografico: dopo il diploma di "archivista paleografo" nel 1922, lui che proveniva da una famiglia intensamente atea ebbe una crisi mistica e passò un lungo periodo presso i benedettini dell'isola di Wight, alla fine del quale tuttavia scoprì l'opera di Nietzsche, che gli diede l'impressione "di non aver altro da dire".

Ecco un'oscillazione tipica di Bataille. Ed ecco il Sacro come una sorta di epilessia profonda. Ed ecco, subito, la Morte, che è la parola più frequente in tutta la sua opera.(...) La vicenda biografica, letteraria, editoriale, filosofica di Bataille (...) è stata smodata, dispersiva quanto concentrata su alcune ossessioni vissute e scritte fino in fondo, o meglio "oltre il fondo". Per capire bene la situazione in cui ebbe luogo, bisognerebbe citare però almeno l'aggressione che Sartre (...) gli preparò nel 1943, quando lo accusò di essere "un nuovo mistico" e di mistificare parole come "notte", "nulla", "non-sapere", "denudamento", nonchè i concetti di "riso", di "impossibile", di "oltraggio". E' una delle tante scemenze pensate e scritte da quell'intelligentissimo uomo che era Sartre, nel momento in cui si stava avvicinando a quel marxismo che l'occhio (l'oeil) non cieco (come quello paterno) di Bataille aveva già letto fino in fondo. (...)
 

 

 

 

 

 

La fantasia come porta di conoscenza fra Villa Francescati (Verona) e l'Accademia dei Segreti dell'Arenella (Napoli)......

Trovando questo articolo interessante che accosta Napoli e Verona attraverso similitudini considerevoli. Ricavato da il sito www.napoliunderground.org
 
Circa 25 anni fa, durante una perlustrazione realizzata con due colleghi geologi in salita Due Porte all'Arenella, indagine finalizzata all'individuazione di alcune cavità che da fonti storiche dovevano trovarsi in quell'area, mi imbattei in una piccola grotta che mi lasciò sin dal primo momento parecchio perplesso. Si trattava di tre ambienti collegati tra loro da cunicoli e corridoi sulle cui pareti ancora spiccavano intonaci affrescati, ricostruzioni di colonne, tracce della presenza di lapidi e nicchie semicilindriche.

Tutto era comunque stato manomesso. Ancora visibile una porzione di intonaco affrescato su cui erano rappresentati tre soggetti: una donna seduta su uno scanno con un bambino in grembo a cui una figura umana con il viso danneggiato recava un vassoio con delle offerte. Molto probabilmente l'ignoto autore volle rappresentare, in stile egizio, una scena sacra con la dea Iside che allatta Horus. Nello stesso ambiente (un corridoio lungo una decina di metri) sulle pareti laterali l'intonaco era affrescato a rappresentare "opus reticulatum" e quattro o cinque nicchie semicilindriche, già allora vuote, lasciavano presupporre l'antica presenza di statue o altro. La fine di questo corridoio era chiusa da una porta in legno che dava sull'esterno. In un secondo momento avremmo scoperto trattarsi dell'ingresso basso della grotta.
L'ambiente successivo (la prima stanza) era ingombro di materiali edili e le pareti erano ricoperte da pannelli che nascondevano la muratura retrostante. Nella stanza comunque si notava una colonna circolare sulla cui superficie era inciso un "8" molto allungato come una sorta di simbolo dell'infinito ma verticale. Da questa stanza un basso cunicolo conduce in un secondo ambiente. L'ingresso del cunicolo è anch'esso sagomato a rappresentare una sorta di grande numero 8.
Dopo un paio di metri il cunicolo sbuca nella seconda stanza sulle cui pareti si intuivano intonaci affrescati ma già allora estremamente degradati da non permettere il riconoscimento dei soggetti dipinti. In questo ambiente sono presenti due finte colonne (realizzate in muratura e intonacate) di cui una circolare e l'altra a forma quadrata. Su una parete si notava la presenza di una nicchia orizzontale che in origine doveva essere forse chiusa da un lapide la cui impronta era ancora visibile. La parete di fondo di questa stanza è realizzata con una muratura in blocchi e massi di tufo dalla forma irregolare in cui una serie di aperture (una porta in basso e alcuni lucernari in alto) davano la netta impressione che si fosse voluto rappresentare un volto, forse un teschio. Quest'ultima parete divideva l'ambiente da un retrostante box per auto di recente fattura appartenente all'edificio sovrastante. Un ennesimo breve passaggio conduceva in una terza stanza quasi completamente invasa da terreno di riporto probabilmente scaricato da un pozzo in superficie. Lateralmente alla seconda stanza un foro in alto su una delle pareti dava su una stretta e ripida scala in muratura che conduceva in un sovrastante giardino. Fu percorrendo questa scala e calandoci dal foro sulla parete che la prima volta penetrammo in questi ambienti sotterranei.
E' evidente che da subito lo stupore fu notevole. Nonostante avessimo esplorato centinaia di cavità sotto Napoli, era la prima volta che ci imbattevamo in una simile struttura! Realizzammo un rilievo della grotta ed alcune foto. Con questo materiale cercammo di interessare la Soprintendenza di Napoli ma con scarso successo e vista la difficoltà di accesso (allora l'ingresso era possibile solo calandosi dal foro sulla parete) e la incompatibilità di questi ambienti con lo scopo iniziale della nostra ricerca, la cosa fu lasciata in sospeso per alcuni anni.
Dopo una decina di anni mi ritrovai a parlare con l'ing. Clemente Esposito (veterano della speleologia napoletana) di questa vecchia scoperta e di come la cosa fosse tornata nell'oblio. Le insistenze dell'ing. Esposito unitamente a quelle di mia figlia Selene mi spinsero a contattare nuovamente il proprietario della struttura per ottenere il permesso ad un accesso. Cosa che ci fu accordata. A distanza di anni rientrammo nella grotta e questa volta dal più comodo ingresso basso. Tutto era rimasto come lo avevo visto l'ultima volta. Realizzammo nuove foto ed un video. Ma quale poteva essere il senso di quegli ambienti di cui nessuno sembrava saperne niente e che solo alcuni anziani del posto indicavano come "il teatrino"?
Secondo l'ing. Esposito quei luoghi potevano essere identificati con i laboratori di Giambattista della Porta, un luogo nascosto in cui ospitare la sua famosa Accademia dei Segreti. Del resto nei pressi doveva trovarsi la residenza estiva della famiglia Della Porta. Per visionare il breve studio dell'ing. Esposito clikkare qui: L'Accademia dei Segreti
Ma è proprio così? O piuttosto quella cavità non è altro che una sofisticata e affascinante struttura da giardino rientrante nella proprietà dell'antico casale riportato sulla Mappa del Duca di Noja e forse distrutto per far spazio ai moderni casermoni in cemento?
Tra Sette e Ottocento diverse ville aristrocratiche e residenze reali partenopee si dotarono di quei famosi giardini “all'inglese” che tanto successo ebbero in tutta Europa. Tra i tanti penso al bosco di Capodimonte con le sue finte catacombe nei pressi delle c.d. grotte di Maria Cristina di Savoia, alle finte rovine della Villa Floridiana, a villa Heigelin o “villa Inglese” nei cui giardini arricchiti da grotte, ruderi, sculture si è supposta l'esistenza di un vero e proprio percorso massonico ricco di simbologie esoteriche. Anche il resto dell'Italia non fu da meno. Tra i tantissimi esempi penso all'ipogeo di villa Francescatti a Verona il cui ingresso a forma di volto è così simile a quello rinvenuto all'Arenella. Ed ancora, alla curiosa struttura del Regno giardino di Dessau-Worlitz in Germania, considerato il primo parco paesaggistico all'inglese ad essere costruito in Europa continentale nel XVIII secolo: l'isola rocciosa “Stein” (Pietra) e di fianco una ricostruzione della posillipina villa Hamilton. L'isola voleva essere una riproduzione fantasiosa del Vesuvio con tanto di effetti pirotecnici a mimarne l'eruzione! Anche qui un enorme volto con occhi e bocca spalancati così simile a quello dell'ipogeo napoletano... Napoli guardava alla Germania o forse il contrario?

Click sulle immagini per ingrandire
Parete-Volto della c.d. Accademia dei Segreti all'Arenella (Napoli)
 
Ipogeo di Villa Francescatti a Verona (interno) (foto di Luigi Pellini)
 
Ingresso ipogeo di Villa Francescatti a Verona (esterno) (foto di Luigi Pellini)
 
Isola rocciosa "Stein" e villa Hamilton del Regno giardino di Dessau-Worlitz (Germania) (immagine tratta da Wikipedia)
 

domenica 25 maggio 2014

Resistere oltre il possibile

“Dietro le linee”. Hiroo Onoda e l’eterna vittoria della volontà dell’ultimo samurai
di Mario De Fazio - 14/05/2014

Fonte: Barbadillo 



Hiroo Onoda
Hiroo Onoda
“Rimasi nascosto nella foresta, in attesa che il tempo passasse”. L’incipit di“Dietro le linee. Io, solo, per trent’anni in guerra”, il testo scritto da Hiroo Onoda per tramandare la sua battaglia andata avanti per ventinove anni dalla fine della seconda guerra mondiale, è già una promessa. Una lama, inattuale, che fende la contemporaneità. Il tempo è passato, la foresta è sempre intorno a noi. Ma l’ultimo discendente della casta dei samurai è uscito dal verde di Lubang per salire le impervie vette dell’eternità.
“Dietro le linee” è un libro scomodo. Non a caso è stato edito dalle edizioni di Ar: l’edizione, come sempre quando si tratta della casa editrice padovana, è curata nei minimi dettagli. Le venti righe sul risvolto di copertina siglate da Franco Freda, da sole, illuminano più di intere biblioteche, quando spiegano che il libro è “il racconto della passione virile della volontà, di un portamento ascetico “fuori linea”, di un dispositivo esistenziale eccentrico – perché eroico – rispetto al sistema dell’umanismo contemporaneo”.
Ventinove anni. Passati a combattere una guerra che il Giappone aveva già perso nel ferreo convincimento che la sconfitta non fosse possibile. Prima con pochi camerati, Akatsu, Shimada e Kozuka. Poi, con il passare degli anni, la diserzione del primo e l’uccisione degli altri due, da solo. A sfidare sorte e ragione, chiedendo aiuto alla natura e potendo contare solo sul proprio spirito, forgiato come la lama di una katana dallo sforzo quotidiano di essere fedeli a se stessi. Cesellando, con pazienza, il progetto di una volontà che vuole diventare forma.
“In qualità di ufficiale dell’esercito imperiale avevo ricevuto una consegna. Sarebbe stato vergognoso per me non essere all’altezza di rispettarla”, scrive Onoda. Quando entra nell’esercito, è un ragazzo normale. Beve, fuma, passa le notti dedicandole al gioco, gli piace ballare. Ma coltiva la passione per il kendo e, quando dovrà partire per le Filippine, porterà con sé una spada da samurai, eredità della famiglia della madre. “Si trovava in un fodero bianco e, nel porgermela, mia madre mi disse in tono grave: Se ti fanno prigioniero, usala per ucciderti”. Poi arriva l’addestramento nelle “squadre di pacificazione”, uomini pronti a infiltrarsi nelle linee nemiche e alla guerriglia. Impara che “nella guerra segreta c’è integrità”. “Con integrità – scrive il tenente – intendo anche sincerità, lealtà, dedizione al dovere, dirittura morale. Con l’integrità è possibile sopportare tutte le avversità e alla fine farne strumenti di vittoria”. Infine la guerra, come catarsi. E la decisione di dedicare la propria vita a un’idea, all’Impero del Sol Levante, elevando il dovere a disciplina quotidiana dello spirito e del corpo.

Onoda è un uomo, non solo un esempio. E il libro restituisce non solo la dimensione eroica della sua esistenza ma anche una purezza che, agli occhi moderni, può sembrare persino elegante ingenuità. Non crede mai ai messaggi diffusi sull’isola dagli altoparlanti, o a giornali e messaggi che le squadre di ricerca lasceranno nella giungla, nei ventinove anni di guerriglia, per convincerlo ad arrendersi. “Come potevamo pensare che le città del Giappone erano state rase al suolo, che quasi tutte le navi giapponesi erano state affondate, e che un Giappone ridotto in ginocchio si era veramente arreso?”. Non contempla la sconfitta perché ha giurato di dare la vita per la vittoria del Sol Levante.“Quando nel 1994 giunsi nelle Filippine, la guerra stava andando male per il Giappone e nella nostra patria la frase ichioku gyokusai, cento milioni di anime stanno morendo per l’onore, era sulle labbra di tutti. Questo significa letteralmente che la popolazione del Giappone avrebbe combattuto fino alla morte dell’ultimo uomo piuttosto di arrendersi. Io presi questa frase alla lettera, e sono certo che molti altri giapponesi della mia età fecero la stessa cosa”.
Curioso – ed emblematico – che il tenente, chiuso nella giungla di Lubang senza contatti con il mondo esterno, consideri possibile un’alleanza nippo-cinese contro americani e inglesi. “Presumevo che la lega asiatica, sotto la leadership nipponica, fosse ancora impegnata in un accanito conflitto economico e militare con l’America”. Sa che in Cina c’è la rivoluzione di Mao ma è convinto che i due Paesi lavorino con gli stessi obiettivi. Intuisce, con lungimiranza da monaco-guerriero, che il vero demone da combattere è il mercante a stelle e strisce. “Avevamo giurato che avremmo resistito ai demoni americani e inglesi fino alla morte dell’ultimo di noi”.
Lo stile è asciutto, netto. Ma anche capace di lirismi centellinati, in cui il paesaggio selvaggio della giungla filippina sa svelare squarci inediti dell’animo del tenente giapponese. Al chiaro di luna, sulla lapide del camerata Kozuka, si abbandona la canto di una antica canzone militare: “Fedele ai Cinque insegnamenti, sul campo di battaglia il prode muore. Una cosa soltanto trova certa: anche se neppure un capello di lui resta, nessuno può dolersi di essere morto per l’onore”. Il cameratismo emerge nel suo significato più profondo nel rapporto con Shimada e soprattutto Kozuka, con cui si instaura un legame etico che travalica avversità e individualità. Onore, fedeltà, sacrificio, volontà sono la calce che plasma questo legame. Quando torna a Tokyo, nel marzo del 1974, risponde così alla domanda di un giornalista che gli chiedeva delle difficoltà della vita nella giungla. “La cosa più dura è stata l’aver perso i miei camerati”.
Guerrigliero e ufficiale dell’esercito, rivoluzionario e conservatore, Onoda rappresenta la spiritualità che diviene carne in ogni gesto che conferma una scelta. È il carattere quotidiano di chi combatte la propria rivoluzione ogni giorno. Riconoscendo, nei legami che ci si dà e mai nelle costrizioni esterne della morale suggerita, l’unica, vera libertà del ribelle. Quando, il 9 marzo del 1974, il maggiore Taniguchi gli legge l’ordine di cessare le ostilità, il suo mondo crolla. “Improvvisamente vidi tutto nero. Una tempesta si scatenò nel mio animo (…) A poco a poco la tempesta si placò, e per la prima volta capii senz’ombra di dubbio: i miei trent’anni di guerrigliero dell’esercito giapponese si erano conclusi di colpo. Era la fine”.
La copertina del libro delle Edizioni di Ar
La copertina del libro delle Edizioni di Ar
La vicenda umana e spirituale del tenente Onoda svetta nel sole del mito. È eterna, perché racconta l’universale lotta dello spirito su ogni forma di utilitarismo, moralismo e ragionevolezza. È l’ultimo esempio, concreto e fattuale, della dottrina di lotta e di vittoria. È la “grande guerra santa”, che ciascuno di noi deve provare a vincere. O almeno tentare di combattere per diventare ciò che si è, investendo i propri sforzi nel progetto della forma da dare a se stessi. La giungla di Lubang è intorno a noi, ogni giorno. E la spada di Hiroo Onoda riflette il sole tra gli alberi, illuminando la strada verso la battaglia.

Hiroo Onoda, “Dietro le linee. Io, solo, per trent’anni in guerra”. Edizioni di Ar, 2014, Euro 25,00.

sabato 24 maggio 2014

Agonia e fine della ROMA antica

                                                   
Relazione di:
Federico Zeri, Vice Presidente del Consiglio Nazionale per i Beni Culturali e Ambientali e
Accademico di Francia
La città di Roma è stata per il mondo antico qualche cosa di insuperabile e di insuperato: è stata veramente la capitale di quello che era considerato il mondo civile. La storia antica ha conosciuto tre grandi imperi: quello romano - il quale è crollato, per quanto sia durato molto a lungo l’ultimo lembo di territorio romano, la città di Costantinopoli, capitale dell’impero romano d’Oriente, caduta nel 453 -, l’impero persiano, che ha avuto la grande rinascita Sassanide, il quale poi si è fuso con la civiltà islamica, e un impero che poi è diventato una repubblica, che esiste ancora e si chiama Cina.
Ma quello che era lo splendore di Roma e la sua grandiosità è qualche cosa di cui difficilmente potremmo farci un’idea. Roma non solo era una città gremita di tesori di storia e di arte, ma era anche una grande città per numero di abitanti. Generalmente si crede che le mura costruite alla fine del III secolo dall’imperatore Aureliano circondassero tutta la città. Questo non è esatto: le mura di Aureliano hanno circondato solo quello che era un grandissimo centro monumentale. Al di fuori delle mura, la città abitata doveva continuare, e lo dimostra il fatto che per costruire le sue mura Aureliano e i suoi architetti hanno incorporato anche edifici piuttosto alti. Sappiamo anche da scrittori antichi che esistevano dei sobborghi, come quello di cui parla lo scrittore Ammiano Marcellino, e che si trovava sulla Nomentana all’altezza dell’odierna basilica di sant’Agnese. Ancora oggi, se si scava lungo le vie consolari, anche a distanza di chilometri da quelle che sono le porte delle mura di Aureliano, dopo due o tre metri si scopre uno strato di mattoni di legno bruciato e di altri avanzi che dimostrano come il luogo fosse abitato.
Roma doveva dunque essere una grande città monumentale, enorme, circondata da una gigantesca periferia simile a quelle che noi oggi chiameremo favelas brasiliane, una periferia di baracche. Questa situazione viene generalmente ignorata ma è provata anche dalla enormità degli edifici pubblici della città. Quando si pensa alla capienza del Circo Massimo, del Colosseo e alla quantità degli edifici termali - alcuni anche di dimensioni colossali, come le grandi terme costruite vicino all’odierna stazione Termini da Diocleziano e da Massimiano, o le terme di Traiano sull’Esquilino o quelle di Severo Alessandro sul Campo Marzio vicino al Pantheon, o infine le enormi terme di Caracalla - ci si chiede: ma chi poteva adoperare degli edifici termali così grandi? Doveva esserci una popolazione molto superiore a quella del milione o del milione e mezzo che generalmente si crede. Doveva essere una città molto grande, che aveva una periferia alimentata da tutti coloro che - come oggi accade al Messico o al Cairo - abbandonavano le campagne.
Quindi Roma alla fine del IV secolo doveva essere una città di splendore immenso per i suoi monumenti, ed anche molto affollata sia dagli abitanti all’interno della cinta muraria sia da coloro che vivevano al di fuori. L’Imperatore Aureliano - il quale dopo la grande crisi del III secolo ricostruisce l’impero su basi militari - aveva previsto, giustamente, che la città poteva diventare obiettivo delle incursioni dei barbari. Ai suoi tempi questo poteva sembrare un pensiero da pessimista, ma poi la realtà si è dimostrata superiore alle più nere previsioni e nel 410 la città dopo un assedio venne occupata dai Visigoti del re Alarico.
Guardando i film storici o leggendo alcuni libri, si pensa che la città sia stata subito distrutta dai barbari, i quali han dato fuoco agli edifici, abbattuto le colonne e così via; in realtà i barbari non hanno fatto nessuna di queste cose, per due ragioni. La prima è che il primo invasore visigoto Alarico era di educazione già profondamente romanizzata, ed aveva un certo rispetto verso la città. Pare che durante la sua occupazione sia andata a fuoco nel foro romano la basilica Emilia, ma non è sicuro; la basilica è stata bruciata, ma non si sa quando, quello che si sa di sicuro è che è andata a fuoco la residenza imperiale degli orti sallustiani, situata proprio nel punto in cui egli entrò a Roma, punto che si può ancora vedere nelle mura aureliane. Ciò fece un’immensa impressione, e spinse sant’Agostino a scrivere La città di Dio, ma la città non ha molto sofferto. Inoltre - ed è la seconda ragione - i barbari non cercavano di abbattere i monumenti, bensì di impadronirsi di metalli preziosi e di ottenere un riscatto. In seguito Alarico per riscattare Roma - ed è un particolare curioso - chiese dei sacchi di pepe, preziosissimo allora, perché le carni macellate o dovevano essere mangiate subito o conservate sotto pepe. Ma la città praticamente rimase intatta.
Una seconda incursione, invece, molto più grave fu quella nel 455 dei Vandali del re Genserico, che erano scesi nella Spagna, avevano passato lo stretto di Gibilterra su delle imbarcazioni e si erano impadroniti dell’Africa settentrionale mettendo la capitale nella grande città di Cartagine che, alla fine dell’impero romano, insieme a Roma, Alessandria e Antiochia era una delle grandi città dell’impero. I barbari di Genserico hanno fatto un danno di cui oggi risentiamo ancora le conseguenze. Innanzitutto essi portarono con sé gli Alani, un popolo di origini iraniana, il popolo che aveva convertito gran parte delle popolazioni germaniche all’arianesimo. Questo è un fatto molto importante perché l’incursione del 453 di Vandali e ariani aveva anche dei connotati religiosi: i barbari infierirono contro Roma. Ma il danno più grave che fecero è la terribile persecuzione che soprattutto gli Alani scatenarono, nell’Africa settentrionale, contro il Cattolicesimo africano che era il più fiorente dell’epoca. Non dimentichiamo Tertulliano, sant’Agostino, moltissime personalità dell’epoca. La persecuzione di cui restano abbondanti notizie fu terribile e colpì non soltanto il Cattolicesimo ma anche tutto ciò che aveva una struttura organizzativa romana. Al punto che coloro che erano sopravvissuti alla persecuzione fuggirono lasciando nel Nord Africa un grande vuoto, vuoto di ricordi sia dell’amministrazione romana che della cultura classica. Il fanatismo islamico nell’Algeria dei nostri giorni è in gran parte dovuta al fatto che quando l’Islam arrivò a Cartagine e nelle grandi altre città dell’odierna Tunisia e dell’odierna Algeria, non trovò più niente di romano, non subì quell’influsso profondo dell’organizzazione romana e della cultura greca che invece subì in Siria, nel Libano e nell’Asia Minore; trovò terra bruciata.
Tornando a Roma, i Vandali fecero sicuramente dei gravi danni, dei quali però non abbiamo esatte notizie; inoltre, fu sicuramente un’occupazione che ebbe anche dei connotati religiosi. Durante queste occupazioni, soprattutto quella del 410, è ovvio che la popolazione che viveva fuori delle mura si riversasse all’interno delle città. La gente deve essersi rifugiata all’interno con grande danno alla struttura urbana; ma possiamo ben pensare che sia il prefetto della città che gli emissari della capitale dell’impero romano d’Oriente, dalla quale ormai dipendeva Roma, si preoccupassero della salvaguardia dei tesori d’arte e dei monumenti della città stessa.
Comincia in quel momento una lenta spoliazione dei monumenti antichi, perché mancava l’arrivo diretto di pietre e di marmi dalle cave e soprattutto perché non c’era più la manodopera per la manutenzione. La decadenza è stata molto lenta, ma dopo le prime invasioni e soprattutto quella del 455, abbiamo parecchie notizie di provvedimenti del governatore di Roma, che per esempio emana dei decreti severissimi contro coloro che avevano cominciato a manomettere i grandi sepolcri lungo le vie consolari. Le vie consolari intorno a Roma infatti erano fiancheggiate da una quantità inverosimile di monumenti marmorei, i grandi sepolcri: Roma non aveva dei cimiteri, e la gente veniva seppellita lungo le strade. Questi monumenti erano delle forme più bizzarre: in pietra, in marmo, o anche colossali mausolei dedicati ad intere famiglie. Quando dunque comincia la spoliazione delle tombe, ci sono degli editti imperiali dell’imperatore di Costantinopoli severissimi contro coloro che si dedicano all’empio commercio dei marmi delle tombe. Le tombe venivano anche profanate, perché la gente spezzava i sarcofagi per impadronirsi dei gioielli che erano stati seppelliti insieme ai defunti. Quindi comincia una lenta erosione di queste tombe, il 99% delle quali è scomparsa. Le tombe più curiose che si sono salvate fino ai nostri giorni sono quelle che erano state incorporate nelle mura di Aureliano, come ad esempio la famosa tomba del fornaio di epoca augustea vicino a porta Maggiore, salvatasi perché inglobata in una torre accanto alla porta Flaminia.
Un terribile fatto accadde più tardi, quando agli inizi del VI secolo una nuova popolazione di origine germanica invase l’Italia, formando un regno associato: gli Ostrogoti. Anche loro erano di formazione già profondamente toccata dalla latinità, e sappiamo che sotto il re Teodorico, morto nel 526, furono restaurati parecchi monumenti di Roma. Abbiamo documentazioni evidenti che il palazzo imperiale del Palatino era addirittura abitato dal re, il quale costruì un piccolo ippodromo nello stadio di Domiziano. Questo ultimo momento dello splendore di Roma dura poco, perché alla morte di Teodorico segue quella che è la più grande catastrofe della storia d’Italia: la guerra gotica.
L’impero d’Oriente e il suo imperatore Giustiniano con i suoi consiglieri non potevano ammettere l’esistenza di un regno barbarico in Italia. Comincia così una cosiddetta guerra di riconquista: la prima è rivolta contro i Vandali e gli Alani che avevano conquistato Cartagine, e che vengono distrutti in poco tempo perché erano debolissimi dal punto di vista militare; la seconda è la guerra contro i Persiani per allontanarli; infine, la terribile guerra gotica che cominciò come se fosse un giochetto, mentre invece durò moltissimo, fino al 545 circa, praticamente distruggendo la civiltà antica in Italia. Tutta la zona, compresa Rimini, delle Romagne e della costa fino circa ad Ancona venne ridotta ad un deserto: addirittura si parla di questa zona come luogo dove la popolazione fu costretta al cannibalismo indebito. Tutte le sorgenti d’acqua vennero avvelenate e i corsi d’acqua vennero impestati con cadaveri, carogne di animali. La cosa più grave fu l’assalto contro Roma che portò a conseguenze gravissime. Una di queste fu che Totila re dei Goti fece tagliare tutti gli acquedotti attorno a Roma, per cui Roma rimase senz’acqua: ma l’acqua continuava ad essere gettata dagli acquedotti, nel punto in cui erano stati tagliati, provocando così la formazione di immensi acquitrini, che poi sono diventati il regno della malaria, delle paludi, durati sino a pochi decenni fa.
A un certo punto Totila decide di sferrare un attacco contro la città, e ci riesce facendo una breccia nelle mura (nell’attuale viale del Policlinico c’è ancora un tratto di muro riparato: è il punto in cui entrò Totila); Totila non bruciò gli edifici (anche questo si vede nei film storici), invece cacciò dalla città tutti gli abitanti, quindi per un certo periodo di anni, che possono essere stati soltanto due o tre, la città immensa è rimasta senza manutenzione. Rimanere senza manutenzione comportava dei danni incalcolabili, specialmente per edifici colossali, come le terme di Caracalla, dove ci volevano migliaia di addetti per la pulitura dei tetti, per gli scarichi dell’acqua. Questi edifici termali erano anche complicati nel funzionamento, e c’era una specie di gigantesca organizzazione che manteneva in piedi gli edifici termali e gli altri edifici, come il palazzo imperiale del Palatino, un complesso gigantesco gremito di opere d’arte, oppure il Pantheon.
Finita la guerra gotica, è successo un fatto molto curioso: molti abitanti non sono voluti tornare nella città, né nelle zone dove abitavano prima degli eventi bellici. Perché? Perché l’impero d’Oriente, non tenendo conto delle gravissime situazioni in cui versavano le terre che erano state teatro dei combattimenti, ha imposto il suo sistema fiscale, e di conseguenza tasse terribili gravavano sugli abitanti, rendendoli praticamente nullatenenti. E poi c’era un altro fatto: già si era avviato quel violento odio, quella violenta frattura, fra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente, fra Chiesa Cattolica e Chiesa Ortodossa. Giustiniano, grande costruttore, è l’imperatore d’Oriente del quale restano più edifici: Santa Sofia ad Istanbul, antica Costantinopoli, la chiesa dei Santi Sergio e Bacco nella stessa città, che era la chiesa fatta per sé e sua moglie Teodora e che oggi è una moschea, la chiesa della Natività a Betlemme, ricostruzione giustiniana di un edificio più antico fatto da Costantino; la bellissima e intatta chiesa di Santa Caterina al Monte Sinai, uno degli edifici più conservati del mondo antico; la chiesa di S. Giovanni ad Efeso, San Vitale a Ravenna... Sono gli avanzi di un imperatore, il quale veniva accusato dal suo storico Procopio di essere un maniaco del mattone e della decorazione abusiva. Eppure, a Roma non ha costruito assolutamente niente: quando il suo generale Belisario riprese la città, furono liberate le mura ma né Giustiniano né Belisario si sono minimamente preoccupati di fare qualche cosa per i monumenti della città che stavano andando in rovina.
Il riuso dei materiali di monumenti più antichi è un fatto molto più antico di quello che non si creda. Già nel III secolo si ha il sospetto che alcuni monumenti di Roma venissero costruiti usando elementi di monumenti precedenti, ma non per ragioni di necessità, bensì perché si voleva attribuire al nuovo monumento quella carica simbolica implicita in quello più antico. Per esempio, nel 313 venne costruito l’arco di Costantino con elementi tratti da monumenti più antichi perché Costantino era vittorioso come Traiano, era saggio come Marco Aurelio, amante delle arti come Adriano. Infatti i rilievi tolti ai monumenti più antichi di questi imperatori hanno la testa dell’imperatore originario sostituita con quella di Costantino. E i romani dovevano riconoscere perfettamente da quali monumenti quei rilevi provenivano. Quindi il riuso è un fatto simbolico, e nel III e nel IV secolo è molto comune. D’altronde noi sappiamo pure che elementi del palazzo imperiale del Palatino vennero portati nel palazzo imperiale di Costantinopoli. Per esempio la stanza dove nasceva l’erede all’impero, il cosiddetto porfirogenito, era completamente rivestita da lastre di porfido e la stanza che si trovava nel grande palazzo imperiale di Costantinopoli era quella stessa del Palatino, smontata e portata a Costantinopoli, per ragioni simboliche, in modo che chi nasceva in quella stanza aveva come predecessori i figli degli imperatori del II e del III secolo nati fra le stesse lastre di porfido rosso, il materiale dedicato all’imperatore. Quindi il fatto del riuso era una cosa molto più antica: però adesso noi assistiamo a un fenomeno del tutto diverso. Vediamo monumenti antichi i quali vengono spogliati di marmi unicamente per costruire delle chiese o per ornare le Chiese. Non vengono certamente saccheggiati per ragioni simboliche, cosa che sarebbe stata in completa contraddizione con l’uso al quali adesso venivano destinati.
Alcuni monumenti invece furono demoliti per ragione di staticità. Per esempio nel centro di Roma, nel luogo più importante della città, il foro romano, il grande tempio della Concordia che era stato costruito dall’imperatore Tiberio venne demolito perché gravemente lesionato, fino a minacciare di crollare e con il crollo danneggiare il sottostante arco di Settimio Severo e probabilmente anche la sede del senato. Altri monumenti sono stati spogliati lentamente delle loro decorazioni facendo giri incredibili. Tutto questo avveniva anche perché nessuno capiva più il significato dei monumenti antichi.
La fine del mondo antico è contrassegnata dalla fine dell’alfabetizzazione. Si calcola che l’alfabetizzazione raggiunta nell’impero romano, agli inizi del VI secolo e alla fine del V secolo, sia stata raggiunta poi dall’Europa soltanto nel secolo scorso. Alla fine dell’impero invece nessuno sapeva più leggere le epigrafi, nessuno o pochissimi, sapevano il significato della quantità enorme di iscrizioni che vedeva intorno a sé. D’altronde l’impero, e soprattutto Roma, aveva subito una sorta di distruzione delle proprie radici culturali, anche nel cambiamento della religione. Quindi questi templi, dedicati a divinità di un’altra religione, non venivano più compresi nel loro significato, erano abbandonati se non anche devastati e profanati. Quindi la città decade lentamente, sia per mancanza di manutenzione, sia per mancanza di interesse, sia perché non c’era più né la possibilità né l’intenzione di salvare il salvabile.
La cosa più curiosa è che qualcuno si preoccupava ancora di salvare il patrimonio culturale della città, soprattutto i libri. Noi abbiamo notizia di un provvedimento del governatore costantinopolitano, una legge la quale cerca di salvare i libri ancora esistenti nelle grandi biblioteche pubbliche di Roma. Ogni edificio termale aveva anche due biblioteche: questo documento dice di raccogliere tutti i libri per trasportarli nelle due biblioteche delle terme di Diocleziano, perché erano le uniche in cui dal tetto non filtrasse l’acqua. In quel periodo sono andati persi migliaia e decine di migliaia di volumi con miniature, di rotoli e così via: praticamente dell’immenso patrimonio librario dell’antica Roma si è stato salvato un solo libro, il Virgilio Vaticano. Tutto il resto è stato distrutto dall’umidità, dall’incuria, dalla mancanza di manutenzione. Sappiamo anche che già nel IV secolo, alcune delle famiglie pagane, per esempio i Simmachi, i Nicomachi e altri, erano preoccupati della possibile distruzione dei grandi testi della cultura romana (Virgilio, Tito Livio, Catullo, Orazio, Ovidio) e avevano per questo allestito nelle loro grandi case degli scriptoria, cioè dei luoghi in cui si copiavano i manoscritti. Di ogni opera ne venivano fatte decine e decine di copie, che venivano poi spedite ai quattro angoli più remoti dell’impero, sperando che ci fosse almeno qualche luogo da cui questi manoscritti potessero sopravvivere dalla catastrofe. Cosa che poi è accaduta, perché di tutti i testi latini che noi possediamo, quasi nessuno viene da Roma, vengono tutti dai luoghi più remoti dell’impero. Moltissimi vengono dall’Irlanda, che, benché cristianizzata, era avida della cultura latina. Quindi questa diaspora di copie dei manoscritti latini è servita a tramandarci molti dei capolavori della latinità.
Un altro fatto significativo è che alcune statue vennero nascoste. Purtroppo non sappiamo i nomi degli autori e non sappiamo cosa rappresentassero. Quando nel secolo scorso si allargò l’odierna via 4 Novembre dietro il palazzo Colonna, furono scoperte due statue in bronzo, splendide, di un pugile e di un monarca ellenistico che erano sicuramente state nascoste per impedire che venissero devastate. La Venere Capitolina, la statua in marmo che oggi si trova nel palazzo del museo capitolino, fu trovata in via san Vitale coricata e coperta di due mattoni, sotto terra. C’è stato qualcuno che ha nascosto alcuni dei tesori per impedire che venissero distrutti. Lo stesso governo di Costantinopoli effettuò sicuramente un rastrellamento di capolavori della scultura greca che erano ancora presenti a Roma. Queste statue, in bronzo soprattutto, dovute ai più grandi artisti della Grecia classica, vennero impacchettate e trasportate a Ravenna, poi dal porto di Ravenna venivano imbarcate e facendo del cabotaggio venivano trasportate a Costantinopoli. Noi sappiamo che nella città di Costantinopoli erano state raccolte le statue più importanti di moltissime province dell’impero. Sappiamo che nel circo di Costantinopoli esistevano dei gruppi in bronzo, poi distrutti dai crociati nel 1204 e fusi per fare moneta, che erano fra le opere più insigni dell’impero. Pare che a Costantinopoli ci fosse l’originale del Laoconte in bronzo. Pare sicuro che ci fosse anche l’originale in bronzo di quell’immenso gruppo di cui è stata ritrovata la copia in marmo, anni fa, a Sperlonga a sud di Roma che rappresentava Polifemo accecato da Ulisse. La città di Costantinopoli era diventata un immenso museo dei capolavori greci. La stessa Athena Parthenos di Fidia, per impedire che fosse devastata o distrutta da eventuali saccheggi di Atene, era stata portata a Costantinopoli.
Quindi anche a Roma deve essere accaduta la stessa cosa: addirittura, credo - da notizie che ho assunto da varie fonti - che una nave carica di questi capolavori esista ancora, affondata al largo della città di Fano, ed è la nave dalla quale proviene il meraviglioso bronzo che poi è stato fatto uscire dall’Italia in modo surrettizio e che oggi si trova in un museo della California, il cosiddetto bronzo Ghetti, uno di questi grandi capolavori della scultura greca portati via da Roma e poi andato a fondo. Lì probabilmente c’è una nave intera, e infatti c’è un punto dove i pescatori non vogliono andare perché dicono che il diavolo gli rompe le reti: sono le statue affondate nelle quali si impigliano le reti che poi vengono strappate. Anche due pezzi famosissimi come i bronzi di Riace provengono da lì.
La città di Roma venne dunque spogliata prima dei suoi capolavori, probabilmente anche i quadri - Roma era piena di capolavori di pittura greca -, e poi si passò a togliere dagli edifici perfino le tegole di bronzo dorato. Sappiamo che vennero tolte le tegole dal tempio di Venere in Roma, vicino al Colosseo, e la copertura di bronzo dorato dal Pantheon. Tutti edifici splendidi, meravigliosi, dai quali venne tolta questa decorazione, che faceva molta gola.
La città intanto andava sempre più impoverendosi, sempre più immiserendosi e gli edifici, mancando la manutenzione, cominciarono a crollare o ad essere trasformati. Ad esempio il Colosseo diventò un enorme condominio di moltissime famiglie. Nelle arcate del pian terreno c’erano le scuderie, e negli altri piani era stato lottizzato, cosa molto utile, perché il Colosseo diventava così una sorta di villaggio-fortezza molto facile a difendersi. L’acqua veniva presa probabilmente o dai condotti sotterranei del Colosseo o dalla vicina fontana. Anche l’edificio più spettacoloso della Roma imperiale, quello di fronte ai quali i visitatori rimanevano stupefatti, cioè il foro Traiano, deve essere incominciato a crollare. Devono essere crollate le travature della navata centrale della basilica Ulpia: da qui, la basilica diventa un luogo di baracche. C’è un punto di scavi, che non è generalmente visibile, in cui si vedono gli avanzi della basilica e gli avanzi di miserabili catapecchie con i focolari; il pavimento di marmi preziosissimi è addirittura sfondato per scavare le tombe degli abitanti. Così come intorno al Colosseo gli abitanti avevano fatto un loro cimitero.
Altri monumenti vennero distrutti scientificamente: uno dei casi più curiosi è quello del foro di Augusto, con il meraviglioso tempio di Marco, che è stato raso al suolo da un gruppo di monaci basiliani, per costruire una chiesa. Furono salvate solo le tre splendide colonne che ancora esistono sul fianco, colonne salvate perché sostenevano il campanile, campanile che è stato poi scioccamente demolito alla fine del ‘700. Altri edifici si sono salvati unicamente perché c’è stato un riuso, cioè perché erano riutilizzati a scopi non propri: il tempio di Minerva si è salvato perché era diventato un granaio.
Ma l’intera città è morta, è diventata un luogo deserto, e la popolazione si raccolse lentamente vicino al Tevere, anche per questioni di acqua, in un quartiere che porta tutti nomi greci o dedicati a santi greci: san Giorgio in Velabro, santa Anastasia, santa Maria in Cosmedin.

E così Roma diventa la Roma degli inizi del ’500: poche case, luoghi deserti, pochissimi avanzi romani che emergono... una città piccola la quale da circa due milioni e mezzo di abitanti era scesa nel Medioevo a diciottomila abitanti. La catastrofe dei monumenti antichi è continuata poi, terribile, nel Rinascimento quando il rinnovato interesse per l’antichità classica ha provocato scavi tumultuosi e la distruzione, che continua ancora, perché molto spesso i costruttori, i palazzinari, pur di fare presto i lavori non denunciano i loro ritrovamenti.