mercoledì 9 aprile 2014

Stranamente Giuseppe Galasso difende (l'indifendibile) Cesare l'Ombroso

GIUSEPPE GALASSO E L'INCREDIBILE DIFESA D'UFFICIO DI LOMBROSO (ovvero, purché si parli male dello Stato delle Due Sicilie tutto va bene, anche il razzismo).



L’offensiva negazionista sulla storia del Sud è da tempo scattata. Uno stuolo di guastatori, quasi tutti neofiti del settore, si lanciano goffamente all’attacco di alcuni presunti caposaldi della storiografia revisionista. Allo squillo di esili trombette risponde pomposa la fanfara mediatica, con interpello di polemisti spesso solo apparentemente contrapposti, perché a difesa della parte revisionista vengono per lo più chiamati, secondo uno stratagemma vecchio come il cucco, personaggi inattendibili o folkloristici che indirettamente finiscono per avvantaggiare i sostenitori dell’ammuffito dogma risorgimentale.

I pezzi grossi intervengono a sostegno, profittando del polverone creato dai guastatori (e da certi loro sprovveduti contraddittori!), per cercare di assestare qualche fendente retorico e di screditare in toto quanti hanno fatto emergere, sulla storia del Sud, una verità ben diversa da quella di comodo che altri, imperterriti, hanno colpevolmente avallato.

Un piccolo, ma illuminante saggio di questa tattica ce lo offre Giuseppe Galasso con il suo ineffabile intervento sul Corriere del Mezzogiorno del 6 aprile 2014, introdotto dal titolo, cinico e grottesco, I sudisti e il cranio di Villela. Esso si segnala per la capziosa tecnica persuasiva e gli espedienti dialettici cui il blasonato storico liberale non esita a ricorrere per sminuire e mettere alla berlina quella presa di coscienza che rischia di travolgere quasi 154 anni di menzogne convenzionali.

L’esordio è tutto per l’antropologa calabrese trapiantata a Padova, che ha profuso il suo “sagace studio” al fine di stabilire se Giuseppe Villela, il cui teschio è conservato nel Museo Lombroso di Torino, fosse un combattente o un delinquente comune, concludendo per la seconda ipotesi: era “un povero ladro”, ha dichiarato a La Stampa, proclamando di aver voluto difendere “il Museo Lombroso e l'operato dell'Università di Torino, entrambi accusati assurdamente di avallare teorie razzistiche” .

Da biasimare con fermezza ogni illecita intemperanza nei confronti dell’autrice dell’“agile volume”, pubblicato in una collana diretta dal noto Alessandro Barbero (dei cui metodi storiografici si è già occupato il n. 61 de L’Alfiere), ma non si può fare a meno di rilevare quanto sia singolare lo zelo con cui certi intellettuali, per decenni impassibili come mummie di fronte ai colossali disastri, ancora in gran parte da svelare, di una rapace invasione mascherata da liberazione, si straccino le vesti dinanzi a qualche eccesso, vero o presunto, della libera ricerca storica.

Ora è Galasso, accorrendo dalle retrovie, a portare il suo contributo addirittura alla difesa di Lombroso. Lo fa, però, cominciando con una trovata puerile che non accresce certo il suo prestigio. Sceglie un frammento di prosa invasata, che ritiene possa gettare ridicolo sullo schieramento “borbonico”, guardandosi bene dal citarne l’autore, per evitare di ricevere smentite, e la eleva a emblema dell’avverso modo di interpretare la storia recente. Eh no, don Giuseppe, così non vale…

Ma dopo questa tirata che non conta nulla, duetta con la Milicia nella spericolata protezione di Lombroso, “il cui razzismo … rientra nella cultura del Positivismo europeo, senz’alcun senso antimeridionale, voluto o no”. Ma, abbia pazienza, Giuseppe Galasso, per qualificare Marco Ezechia Lombroso detto Cesare come razzista non basta sapere quello che lei stesso ammette, ossia che questo emerito veronese rastrellava e catalogava i crani (anche) dei meridionali traendone conclusioni circa presunte inclinazioni delinquenziali dei medesimi e che dalle sue ricerche è nata la teoria secondo la quale essi appartenevano a una razza inferiore? Lei trova davvero rilevante sapere se egli nutrisse sentimenti ostili agli uomini del Sud, come la stragrande maggioranza degli artefici dell’invasione del Mezzogiorno oppure si limitasse a provare una sensazione di tranquilla superiorità verso gli sventurati abitanti della Bassa Italia? Non scherzi, almeno quando parla di morti.

Altro argomento insignificante sta nell’invocare l’origine meridionale di personaggi solidali o indulgenti con Lombroso. Tutte le colonie, anche quelle “interne”, sono state edificate con l’ausilio, avventato o calcolato, ingenuo o astuto, di collaborazionisti, non pochi dei quali, nel caso delle Due Sicilie, ebbero un sussulto di tardiva resipiscenza, laddove altri sull’oppressione del proprio popolo prosperarono e prosperano. Quindi, Galasso, non invochi a sostegno di un’opinione l’origine geografica di chi la sostiene, anche perché, altrimenti potremmo sommergerla con infinite citazioni di provenienza boreale.

Ma quello che proprio è inaccettabile, in questo “agile” pezzo giornalistico, è quanto non vi è scritto. Dopo aver sparso discutibile ironia, al ritmo di una logica claudicante e all’insegna di un’affettata supponenza, Giuseppe Galasso trascura il dato più eclatante della materia trattata: l’esistenza, in un “museo” piemontese, di resti umani esposti al pubblico come reperti animali. Egli non se ne indigna, e anzi difende l’istituzione di Torino. Non possiamo che prenderne atto. Meridionale anche lui? Abbiamo detto che ciò non prova nulla.

Ben sappiamo che la storiografia conformista vorrebbe relegare le sofferenze del Sud in un ideale, grande Museo Lombroso, sotto la formalina dell’irreversibile, consumata ingiustizia. Ma l’attualità di quelle sofferenze, perpetuatesi anche grazie alla connivenza di chi ha cercato di chiudere le finestre a ogni vento di verità, ci impedisce di condividere questo auspicio. E pur rivendicando quell’obiettività che può abbracciare solo chi la verità non la teme, proclamiamo il diritto sacrosanto di ricordare le vittime misconosciute e calunniate di quegli eventi e di operare perché il nostro popolo torni artefice del suo destino.

Cordialmente
Edoardo Vitale, direttore de L’Alfiere

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