giovedì 16 gennaio 2014

Le utopie quasi concrete

Ernst Jünger, Adriano Olivetti e la Città del sole




Giovanni Tarantino

C’erano una volta le utopie, o forse, dopo 
tutto, 
ci sono ancora oggi. «C’è un mondo reale 
che diventa favola», diceva Nietzsche. 
Spesso l’utopia coincide con un’idea di
 polis, 
di città. Utopia, per Tommaso Moro, era 
d’altronde  una città.  
Tommaso Campanella, nel 1602, 
immaginò La città del Sole: «Sorge 
nell’alta 
campagna un colle, sopra il quale sta la 
maggior 
parte della città; ma arrivano i suoi giri 
molto 
spazio 
fuor delle radici del monte dentro vi sono 
tutte l’arti, e l’inventori loro, e li diversi 
modi, 
come
s’usano in diverse regioni del mondo».
La “città del sole” ha stimolato anche 
l’interesse di Ernst Jünger, nato a 
Heidelberg nel 
1895, morto nel 1998, che ha attraversato 
un 
secolo, il Novecento, tempo di ideologie 
e di 
utopie. 
Jünger è stato nichilista, poi spiritualista 
libertario 
(dirigendo per anni con Mircea Eliade la 
rivista 
Antaios) ma è morto cattolico, a seguito 
di una 
conversione profond maturata nel 1996, 
a 101 
anni. Il progressivo ripudio della tecnica 
e della globalizzazione, predominanti nella 
società occidentale, porta Jünger ad 
assumere la 
posizione dell’“anarca, e del Waldganger, 
che alla 
lettera sta per l’“uomo che si dà alla 
macchia”, impropriamente presentato 
nelle traduzioni 
italiane come il “ribelle” («è il singolo,
 l’uomo 
concreto che agisce nel caso concreto. 
Per 
sapere che cosa sia giusto, non gli 
servono teorie, 
né leggi escogitate da qualche giurista 
di partito. 
Il ribelle attinge alle fonti della moralità 
non ancora 
disperse nei canali delle istituzioni. Qui,
purché 
in lui sopravviva qualche purezza, tutto 
diventa 
semplice». In Jünger il singolo libero è 
colui che 
passa al bosco, che migra e che almeno 
metaforicamente si allontana 
consapevolmente 
e spiritualmente dalla tecnica e dal 
potere. Eppure 
lungo tutto il suo corso e la sua vasta 
produzione bibliografica,  Jünger ha 
inventato 
città, in una trilogia inauguratasi nel 
1939 da 
Sulle scogliere di marmo, proseguita 
dieci 
anni dopo con Heliopolis, conclusasi 
nel 1977 con Eumeswil.


Se perfino questo grande intellettuale e 
testimone del Novecento ha reso la città 
un luogo immaginario, immateriale, dove
la 
“città del sole” corrisponde a una 
dimensione 
dell’anima, è stato invece l’italiano 
Adriano 
Olivetti che, partendo da presupposti 
ontologicamente diversi, ha provato 
a dare 
struttura concreta e reale a quella che 
ha 
definito “città dell’uomo”. Unico caso,
tra 
quelli menzionati, di utopia realizzabile.
Michele Mornese, nel suo L’eresia 
politica di Adriano Olivetti, ha spiegato: 
«A differenza della Repubblica di 
Platone, 
dell’Utopia di Moro e della Città del 
Sole 
di Campanella, l’utopia di Adriano 
Olivetti 
si è dimostrata, almeno parzialmente, 
possibile. L’azienda Olivetti apportò 
ontributi 
di modernità nel territorio, nei limiti della 
propria potenza economica, dando vita 
ad 
un capitalismo sociale, dal volto umano. 
Il 
concetto di utopia assume, alla luce di 
queste 
realizzazioni, segno positivo di intervento 
concreto che può aiutare a collocare nel 
giusto orizzonte culturale la sintesi di 
mondo 
materiale e mondo spirituale tentata da 
Olivetti. 
Ovvero la convinzione che il primo celi in 
sé 
forze latenti di autosuperamento, le quali 
ispirano
 un pensiero e un’etica dell’azione 
definibili 
come “forza vitale”». Ivrea, la fabbrica 

dimensione di operaio, con biblioteche, 
con vetri 
a giorno, luogo ideale per lavorare e 
vivere. 
Esempio tangibile di come dovrebbe agire 
un 
imprenditore illuminato, quale Olivetti è 
stato.
Scrive Laura Olivetti, figlia di Adriano, 
nella 
presentazione al volume Costruire la 
città 
dell’uomo. Adriano Olivetti e
l’urbanistica
«Sembrerebbe quasi che la parola 
utopista 
venga adoperata per storicizzare la 
sua 
figura con una modalità che tende a 
rimuovere
e cancellare molto di quello che è stato
fatto. 
È strano perché, tranne rarissimi casi, 
quando viene spiegato perché fosse 
un utopista 
si elencano automaticamente molte 
cose invece 
portate a termine e la parola utopia 
si dissolve».


Scomparso nel 1960, quando ne 
vengono 
rievocate le gesta in dibattiti, tavole 
rotonde, 
c’è sempre un pizzico di rimpianto. 
Olivetti è stato magistralmente raccontato 
in 
una storia a fumetti (edita da Becco 
Giallo) 
scritta da Marco Peroni (che è 
originario 
di Ivrea proprio come Olivetti) e 
disegnata 
da Riccardo Cecchetti. Un secolo 
troppo 
presto è il sottotitolo non casuale 
del libro: 
«Adriano credeva in una società di 
tipo nuovo, 
al di là del capitalismo e del socialismo. 
Attorno alla sua Ivrea, “l’Atene degli 
anni 
Cinquanta”, costruì il prototipo di un 
nuovo 
ordine, una comunità concreta in cui 
industria 
e cultura, profitto e solidarietà,
 produzione 
e bellezza si tenevano per mano».
 Basta poco 
per capire che fu un vero precursore, 
uno 
che aveva anticipato di gran lunga i 
tempi. Che, 
forse, per i suoi di tempi era troppo 
avanti: 
ai giovani del Movimento Comunità,  
da lui 
fondato nel 1948, che gli rimasero 
attorno 
dopo le lacerazioni provocate dallo
esito 
infruttuoso delle elezioni politiche del 
1958, egli diceva, senza rimpianti e 
senza 
crucci per le sconfitte subite, che 
occorrevano 
ancora dieci anni di lavoro in “solitudine”.
Poi la Comunità avrebbe proseguito 
il lavoro 
con le proprie forze.
Questa utopia andata comunque al 
potere è oggi 
raccontata, nuovamente, con grande
merito dalle
 Edizioni di Comunità: il marchio 
della casa 
editrice, fondata dall’imprenditore nel
’46, è 
tornato a vivere. Grazie alla cura del 
direttore editoriale Beniamino de’ Liguori 
Carino, 
tornano in libreria le più importanti 
opere di 
Olivetti, non più disponibili da anni. 
Un modo 
concreto per riscontrare l’attualità 
del pensiero 
olivettiano, a partire da Ai lavoratori
primo di 
cinque scritti della collana 
Humana Civitas.   

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