lunedì 6 gennaio 2014

Felice Chilanti. L’anarchico fascista


Romano Guatta Caldini

Di me non potevano fidarsi per l’anarchismo di tutta la mia vita, non sapevo prendere ordini, io.
Felice Chilanti
Quando, il 25 ottobre del ’38, Mussolini annunciò i famosi “tre cazzotti” da indirizzarsi nel ventre dei “vigliacchi borghesi”, probabilmente non aveva del tutto previsto le implicazioni socio-economiche, che sarebbero scaturite dalla libera interpretazione fattane dagli intellettuali di regime. Infatti, se Mussolini muoveva la sua critica anti-borghese attraverso asettiche categorie spirituali, i più accesi esponenti del mondo sindacale videro, nelle dichiarazioni d’ottobre, un implicito riferimento al completamento del processo di revisione che alcuni settori del mondo corporativo attendevano da tempo. Tra i più ferventi critici del sistema corporativo è da segnalare il giovane redattore de Il Lavoro Fascista, Felice Chilanti [nella foto sotto].
felice-chilanti_fondo-magazineQuest’ultimo, collaboratore anche della Stirpe di Rossoni, dopo aver dimostrato che il corporativismo, così com’era stato impostato, non era in grado di togliere l’economia italiana dalle mani dei vari potentati economici, affermò la necessità di una radicale trasformazione dei rapporti inerenti il sistema di produzione e di scambio, aggiungendo inoltre che, senza tali cambiamenti, quella fascista non poteva essere definita una Rivoluzione.
«Si è arrivati – afferma Chilanti – a vedere nella corporazione un organo attraverso cui lo Stato detta delle leggi di giustizia sociale, regolarizzando i nuovi rapporti di vita, come qualsiasi parlamento del governo di un qualsiasi Leopoldo ha potuto realizzare una riforma agraria in Toscana. Qui è la negazione o meglio l’incomprensione del Fascismo».
Quello che Chilanti denunciò ripetutamente nei suoi articoli era il ruolo che la borghesia aveva assunto dal risorgimento fino alla seconda metà degli anni ’30, criticando il concetto stesso che il Fascismo aveva del risorgimento: «a ben guardare – affermava – anche la storia del nostro risorgimento, quella che va ancora per la maggiore nelle scuole fasciste, è dominata dalla tesi borghese, che fa coincidere la grandezza italiana con la destra storica, e la decadenza con l’avvento delle sinistre. Tutti sappiamo quale tizzone cova sotto la svalutazione della sinistra».
Si riferiva a quella stessa borghesia che, dopo aver tradito la rivoluzione nazionale dell’ 800, stava minando anche quella fascista del 900. Era quindi necessario che le riforme, da attuarsi in seno al corporativismo, non fossero dettate dalla borghesia padronale ma dai lavoratori. In tale contesto, si trattava di preparare le condizioni favorevoli all’avvento di una giustizia sociale che traeva le sue origini dalla volontà popolare, dal basso, andando inevitabilmente a scardinare i “rapporti asimmetrici di potere”.
Dopo le dichiarazioni anti-borghesi di Mussolini, i redattori di diverse riviste sindacali come Il Maglio, il già citatoLavoro Fascista, ma anche riviste sui generis come La Verità di Nicola Bombacci, pensarono che il fascismo si stava avviando verso una svolta epocale attraverso la quale si sarebbe potuto imprimere al regime una decisiva virata a sinistra, aprendo nuove prospettive rivoluzionarie.
E’ in questo clima che Chilanti, coadiuvato dall’ex legionario fiumano Vittorio Ambrosini, decide di attuare il golpe, una sorta di “25 luglio” al contrario, una resa dei conti tra fascisti di sinistra e di destra. Ai primi di marzo del ’42, arriva una telefonata a Ciano che lo informa della cospirazione in atto: «La sua vita è in pericolo – dice l’informatore al Conte – rivela inoltre di essere stato avvicinato da un giornalista tal Felice Chilanti, il quale lo ha invitato a partecipare a un movimento rivoluzionario, che si proporrebbe di eliminare tutti gli elementi di destra e conservatori del Partito e d’imporre al Duce un’energica politica socialista. Tutto è già previsto; attacco, arresto dei ministri e morte di Ciano».
Scoperta la congiura, Chilanti è arrestato dall’Ovra il 10 giugno del ’42, dopo il suo ritorno dal fronte albanese. Con l’accusa di aver macchinato l’assassinio oltre che di Ciano anche di Farinacci e Starace, Chilanti è rinchiuso per sei mesi nel carcere di Regina Coeli. Dopo essere stato torchiato il prigioniero non fa i nomi dei congiurati ma ammette: «Sì signor commissario, il Conte e qualche altro Conte, dovevamo liquidarli e catturare Mussolini, di notte, in un aeroporto…».
Non si conoscono esattamente i risvolti della vicenda per poterne dare un giudizio chiaro in sede storiografica, ma la giovane età dei cospiratori, la scarsezza di mezzi e una forte dose d’ingenuità, inducono a pensare che il pericolo effettivo derivato da tale cospirazione si traducesse in poco più di una farsa. Fatto sta che Chilanti viene messo al confino. Qui avviene la conversione; “se il fascismo non cambia – dice – cambio io”. Tornato a Roma entra a far parte del gruppo più discusso del fuoriuscitismo romano: Bandiera Rossa, dove militava Giuseppe Albano, il “Gobbo del Quarticciolo”. Un gruppo, quello di Bandiera rossa, composto da radiati ed espulsi di tutte le formazioni politiche, “fuori e contro il PCI e il CLN”. A sottolineare la distanza di BN dall’orbita del CLN è la presa di posizione in merito alla strage di via Rasella. Infatti, nonostante la perdita di due dei suoi uomini, negli scontri avvenuti in seguito alla strage, Chilanti invia un comunicato al Comando Germanico dove fa sapere che lui e il suo gruppo, con quella”porcata” non c’entrano nulla. Saranno comunque 68 i membri di Bandiera Rossa a essere giustiziati senza che il CLN si fosse assunto le proprie responsabilità. La misteriosa morte di Albano e il duro colpo inferto alla formazione anti-badogliana e anti-CLN, getteranno più di un’ombra sul ruolo ricoperto dal PCI “clandestino” in questa vicenda.
La vita di Chilanti è contrassegnata da un istinto rivoluzionario che gli impone scelte opinabili; il suo è un estremismo che lo porta a combattere il sistema nella sua totalità, ma la coerenza rivoluzionaria ha un prezzo altissimo. Quando un compagno gli mostra le foto dei fucilati di Dongo, Chialanti ha una crisi. Accasciato a terra c’è l’amico Bombacci e il suo ex-redattore capo Ernesto Daquanno, senza contare che a comandare il plotone c’è un ex militante di Bandiera Rossa. Una vita di esperienze politiche e non, riassunte in poche foto.
I tempi però incalzano e dopo il ’45 inizia a collaborare con Il TempoMilano Sera, e il Corriere della Sera dal quale si licenzia a causa dei continui tagli a cui vengono sottoposti i suoi pezzi, considerati eccessivamente di sinistra. Lascia coerentemente il lauto stipendio al Corriere di Milano per la precarietà economica dell’Ora di Palermo. A Chilanti si devono le prime inchieste-denuncia inerenti i rapporti fra mafia, politica e industrie del nord:
«L’operazione monopoli è stata compiuta dagli integralisti della DC soprattutto allo scopo di trasferire nell’Isola potenti gruppi di pressione politica destinati ad esercitare una influenza determinante nella formazione dei governi, nell’esercizio del potere, pronti a mettere a disposizione larghi mezzi e quando occorra, la corruzione degli uomini e l’influenza determinante delle ingerenze dall’alto negli affari della Regione. (…)L’industrializzazione affidata ai grandi monopoli, fulcro della politica governativa integralista siciliana, si mostra con crescente chiarezza piuttosto come una congiura che ha deformato le possibilità di progresso della società siciliana., ne ha paralizzato le sorgenti energie imprenditoriali: una congiura assai simile all’altra di oltre mezzo secolo fa, quando gli stessi complessi industriali e finanziari del nord andarono in Sicilia a demolire le industrie già esistenti, gli impianti dei Florio, la fonderia Orotea che produceva ai primi anni del secolo anche motori marini ed occupava 700 operai; la stessa che oggi è nelle mani del genovese Piaggio, un piccolo stabilimento con poche decine di lavoratori; trasferirono inoltre le linee di navigazione da Palermo a Genova. Anche allora i grossi gruppi industriali e armatoriali del settentrione ottennero mano libera dal governo centrale e trovarono complici in Sicilia. A quei tempi i nemici del progresso siciliani erano protetti al nord da barriere doganali (anche di ciò ci si dimentica quando si fanno raffronti superficiali e meccanici fra le realizzazioni degli imprenditori settentrionali ed il ritardo di quelli meridionali) oggi essi hanno ottenuto dai governi democristiani facilitazioni di altro genere, dagli sgravi fiscali ai finanziamenti a bassissimo tasso di interesse, ai miliardi della Banca Internazionale riservati soltanto per loro. Ed è questa politica, questa congiura per instaurare in Sicilia un potere centralizzato di gruppo che ha seriamente danneggiato il processo di sviluppo dell’imprenditorato siciliano. (…) Nell’immediato dopoguerra gli stessi industriali del nord che otto o dieci anni più tardi calarono in Sicilia coi miliardi dell’IRFIS e sulle ali delle esenzioni fiscali, erano tutti schierati contro l’industrializzazione del Mezzogiorno. Dicevano in quegli anni, i grandi industriali del nord, che industrializzare la Sicilia significava creare una inutile concorrenza, andare incontro ad una crisi di sovrapproduzione e che alla disoccupazione si doveva provvedere col turismo, l’agricoltura e l’emigrazione».
Quando scoppia la bomba davanti alla redazione palermitana lui è in sede, ne esce illeso ma le minacce di morte continueranno. Una volta entrato a far parte dell’orbita togliattana, si reca in Cina e in Russia. Per Chilanti, come per Bilenchi e altri ex fascisti, la definitiva rottura anche con il comunismo avviene con la repressione sovietica di Praga: «Il partito ufficiale cominternista – dichiara – portava in Comitato centrale, in parlamento i più disponibili, gli smemorati; noi i pochi in rimorso consapevole eravamo strumento cieco».
Superata la soglia dei quaranta, anche per Chilanti è tempo di fare due conti. Sotto il fascismo aveva combattuto gli inglesi di dentro, adesso si trova a combattere contro i sovietici interni ed esterni, ma il problema della sua giusta collocazione politica permane. Quel senso di colpa, quella sorta di peccato originale da espiare per essersi convertito lo accompagnerà sempre.
«Un giorno, presso la libreria Rinascita, entra un funzionario del PCI, vecchissimo, mummificato; Chilanti lo indica all’amico Fidia Gambetti, dicendogli: quando lui era un comun-fascista al tempo del patto con Hitler, noi eravamo fascio-comunisti e volevamo finirla con il capitalismo.» Capisce così che non è il solo ad aver abbracciato un’altra fede ma è l’Italia intera ad essere una nazione di convertiti; egli con la sua eccessiva coerenza non ha fatto altro che rimanere fedele ai principi di sempre.
Per certi uomini la politica è come un amante, è rischiosa da frequentare, ma non si può farne a meno. L’ultima passione di Chilanti è stata Avanguardia Operaia nella quale è approdato negli anni ’70, attirato da quell’operaismo che gli ricordava le vecchie battaglie del “sindacalismo rivoluzionario”. Nel ’72, in una reminiscenza dei tempi andati, Chilanti pubblica con la casa editrice Scheiwiller, Ezra Pound fra i sediziosi degli anni Quaranta. La testimonianza inedita del ruolo assunto dal Poeta americano all’interno di un cenacolo di “dissidenti” raccoltosi attorno al quindicinale Domani.
«Era venuto fuori – scrive Chilanti – un incredibile giornale di “fascisti dissidenti” (…) Pound non veniva per incontrare i letterati che avevano scritto nel Domani. Non gli interessavano. Veniva a cercare proprio noi, i “politici”, i fascisti dissidenti.(…) Pound ci ascoltava attento, amichevolmente. Ascoltava e condivideva il nostro disprezzo per i gerarchi e la loro stupidità e fellonia. Si trovava a suo agio, con fascisti “in crisi permanente”, puri, delusi, indignati, ribelli.(…) Eravamo – conclude Chilanti – fascisti anarchici, cantavamo “addio Lugano bella” e con Pound fra noi, per Pound».
L’ultima battaglia di Chilanti lo vede nuovamente schierato sul fronte opposto all’infame eredità lasciata all’Italia dal tradimento dei gerarchi di luglio. E’ infatti con la denuncia dell’usurpazione della sovranità territoriale italiana, da parte della NATO, con l’installazione dei cruise a Comiso, che Chilanti conclude una vita di lotte.

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