sabato 13 luglio 2013

Anniversario della nascita di Elemire Zolla

Ricordando lo scrittore e studioso di mistica Elemire Zolla, il conoscitore di segreti
Il 9 luglio 1926 nasceva Elemire Zolla, raffinato intellettuale e studioso di mistica orientale e occidentale. Lo ricordiamo ripubblicando un ritratto di Alfonso Piscitelli. La psicologia tradizionale dell’India, scaturita dalle fonti metafisiche dei Vedae delle Upanishad, distingue quattro stati di coscienza relativi alla condizione umana: lo stato di veglia, e oltre questo gli stati di sogno, sonno profondo e catalessi. In base a tale articolazione il sogno non viene concepito come una “diminutio” rispetto all’attenzione vigile, ma come una dimensione parallela, anzi più profonda che l’asceta riesce a conquistare attraverso il lavoro su sé stesso. Ora, di Elemire Zolla si potrebbero dire tante cose ma sicuramente è appropriato dire che egli fu un uomo che visse nella dimensione del sogno. Non nelle illusioni oniriche della società plebea di massa, e neppure ovviamente negli incubi delle ideologie militarizzate del Novecento, ma proprio nella sfera genuina del sogno: in quella degli archetipi, dei miti, degli impulsi profondi della coscienza. Oggi che la professoressa Grazia Marchianò, compagna di Elemire Zolla fino agli ultimi giorni, ha composto per le edizioni Rizzoli una “biografia intellettuale” dell’autore, i suoi sogni si squadernano e prendono posto in un panorama complessivo proprio come si dice che accada nell’istante ultimo della vita, quando le immagini della esistenza trascorsa si squadernano in contemporanea. Elemire Zolla, il conoscitore di segreti raccoglie svariate pagine della produzione letteraria dell’autore: si va dagli scritti giovanili polemici nei confronti della società di massa e dei suoi modelli di divulgazione culturale, a resoconti di viaggi, addirittura a profili astrologici che egli compose sotto lo pseudonimo di Bernardo Trevisano. Probabilmente le vesti del viaggiatore erano quelle che più si addicevano al professor Zolla. Il viaggio e la fecondità letteraria sono due elementi che si miscelano in forme diverse. L’Italia ha conosciuto autori come Salgari che viaggiavano innanzitutto con la fantasia, ed altri come Moravia che pur visitando parecchi luoghi trascinavano con sé invariabilmente gli stessi concetti, gli stessi schemi mentali, le medesime limitazioni intellettuali. Zolla invece unì la capacità di una mente multiforme di ampliare continuamente le proprie conoscenze alla vocazione al “pellegrinaggio”, al nomadismo spirituale. Per tale motivo il libro che esprime meglio l’animus dell’autore è forse Aure: quando Zolla descrive le rovine di Persepoli e gli ultimi devoti di quella nobilissima religione che fu il Mazdeismo il lettore vede, immagina, in certi tratti addirittura si illumina. Del resto Zolla fu sempre un pesce fuor d’acqua in Italia. Non ebbe mai la volgarità dei professori che per qualche contingenza politica minacciano di auto-esiliarsi, ma era chiaro che l’Italia nella quale avrebbe potuto trovarsi a suo agio era scomparsa insieme alle corti dell’ancien regime. Da bambino avvertì come plumbeo il clima del regime fascista e quando nel dopoguerra le università furono occupate dai marxisti sembrò chiedersi: “dov’è la differenza?”. Per qualche tempo sembrò allinearsi al tono di contestazione dei teorici di Francoforte, ma in realtà Zolla aveva ben chiaro che la “contestazione globale” dei vari Marcuse, Adorno era essenzialmente un esercizio di acrimonia; dal momento che alle latitudini culturali dei semi-marxisti di Francoforte mancava lo spessore culturale per proporre una alternativa a ciò che aspramente si criticava (la società del frigorifero, del televisore, del Reader’s Digest). Zolla cercò, trovò l’alternativa in luoghi dell’anima che mai gli epigoni dell’hegelismo di sinistra avrebbero sospettato esistere. Nei Mistici dell’Occidente indagò le esperienze interiori, singolarmente concordanti, di veggenti, santi ed eretici senza cedere alla facile moda di ridurle a malattie, a proiezione della libidine. Ne I letterati e lo sciamano mostrò il patrimonio delle pellerossa americani: scrisse questo volume nello stesso anno in cui Carlos Castaneda incontrava don Juan, lo sciamano. I volumi della vecchiaia sembrarono manifestare una sorta di impulso circolare connaturato alla esistenza di Zolla: l’anziano professore, “conoscitore di segreti”, tentava di ricongiungersi alle radici della vita, alla ebbrezza adolescenziale, allo stupore della prima infanzia. Da questo anelito nascono le opere sullo Stupore infantile, o quelle che inneggiano al dionisiaco come Il dio dell’ebbrezza. Nel suo vagabondare tra le tradizioni, tra le seduzioni dell’anima non si negò sconfinamenti nelle regioni più umbratili. Esaltò le esperienze con gli allucinogeni, celebrò le sregolatezze sessuali, si innamorò di quel macchinoso videogioco che agli inizi degli anni Novanta sembrò – a detta di alcuni – essere in procinto di modificare tutta la nostra percezione: la “realtà virtuale”. “Zolla scambia l’estetica per l’estatica” scrisse allora un arguto polemista cattolico: ovvero confonde l’Aistesis (l’ebrezza delle sensazioni) con l’Estasis (la vertigine spirituale dell’anima che penetra in una dimensione trascendente). Era una stilettata ben piazzata; ma liberandola dalla carica polemica era un buon modo per cogliere l’essenza del suo “daimon”. Nell’opera di Zolla si avverte infatti tutta la ricchezza di quella che Rudolf Steiner chiamava l’“Anima Senziente”, ovvero il carattere di quel genere di persone profondamente pagane che colgono il divino nei colori, nei suoni del mondo; che tendono ad abbattere la barriera tra la dimensione prosaica, materiale e la dimensione del sogno. Ovviamente questo genere di persone oscilla di continuo tra la profonda comprensione delle dinamiche universali e la superstizione, ovvero la sopravvalutazione di ciò che manifesta lati d’ombra difficilmente giustificabili. Zolla mai si atteggiò a maestro, e in effetti non ebbe discepoli. Ebbe numerosi lettori, che attraverso lo splendore barocco della sua pagina, goderono il privilegio di partecipare a un suo viaggio, a un suo sogno. Poco tempo prima di morire scrisse un libro sulla “Discesa all’Ade”: dionisiacamente disse di sì alla vita, anche quando essa si affrettava a condurlo verso la morte.
A cura di Alfonso Piscitelli

 La Tradizione presuppone un testimone: può trasmettere realmente solo chi è “informato sui fatti”, chi ne è testimone; dunque può trasmettere solo chi accresce la conoscenza della verità (e non dell’errore) nell’interlocutore; dunque (da augere, “accrescere”), può trasmettere in modo autentico solo l’auctoritas, l’autorità o colui che da essa mutua (in modo meno originale possibile) quella conoscenza da trasmettere. La Tradizione è quindi continuamente implementata dal Magistero; non è un opus distinto dal Magistero, cristallizzatosi in un’epoca (o in alcune epoche) e da rispolverare nel corso delle altre successive. Se noi diciamo o presupponiamo il contrario si creano pericolose contraddizioni. La Tradizione così non è più autentico tradere, bensì diventa quel medesimo ritorno a una presunta età dell’oro che tutti gli gnostici rivoluzionari hanno sempre preso in considerazione nello «stato di natura» e nell’utopia – che, per quanto imparentata, è cosa ben diversa dall’agostiniana Città sul monte, irrealizzabile e irrealizzata in terra –, nonché sempre considerata dagli altri neognostici pseudo-tradizionalisti come Elémire Zolla (Che cos’è la Tradizione).

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