domenica 30 dicembre 2012

Platone e la "scoperta" dell'Anima

Tuttavia, non sarebbe giusto - a nostro parere - insistere in maniera determinante sulle differenze e, viceversa, minimizzare le analogie fra i due approcci al divino, propri delle due grandi tradizioni orientali. Esiste una continuità fra la concezione di Platone, di Ammonio Sacca, di Plotino, di Giamblico e di S. Agostino che, attraverso il Medioevo e il Rinascimento, giunge fino alle soglie dell'età moderna, specialmente in ambito cattolico e greco-ortodosso (meno in quello protestante). Ed esistono delle palesi connessioni fra la concezione di Platone o di Ammonio Sacca e quella di Patanjali o di Sankara. Dunque, in realtà, bisognerebbe piuttosto parlare di due tradizioni parallele e complementari, non certo di due visioni alternative della divinità, escludentisi a vicenda. Studiosi e cristiani come Raimon Panikkar(esempio di fusione fra teologia induista e cattolica Romana) o come padre Anthony Elenjimittam (un raro esempio di induista consacrato vescovo da Papa Giovanni XXIII), profondamente imbevuti di cultura e spiritualità induista, hanno verificato e testimoniato che una sinergia è possibile, anzi che non esistono differenze veramente sostanziali fra le due maniere di cercare l'unione con il divino. Platone apre e fonda l'idea dell'Anima, concetto ripreso da altre religioni religioni Plotino (205-270 d.C.) fu un discepolo
di Ammonio Sacca che fondò la scuola neoplatonica di Alessandria. Egli affermò che l'uomo è fondamentalmente la sua anima e l'anima umana è un momento dell'ipostasi Anima, di cui partecipa il carattere di attività, pertanto, anche quando è nel corpo, l'anima esercita tutte le attività conoscitive, ivi compresa la sensazione che da Plotino non è intesa come momento passivo, ma come "pensiero occulto" dell'anima. La condizione ideale dell'anima è la libertà; ma questa si ottiene solo nella tensione al Bene, ossia mediante il distacco dal corporeo e col congiungimento all'Uno. Proprio in questo sta il vertice dell'etica plotiniana: nell' "unificazione" o nell' "estasi" ossia nella capacità di spogliarsi di tutto, di ogni alterità e di congiungersi con l'Uno. Tale itinerario è detto anche via del "ritorno" o della "conversione", in quanto porta l'uomo alle origini del suo essere. Le vie del ritorno all'Assoluto sono molteplici: quella della virtù quella che corrisponde all'erotica platonica quella della dialettica. Anche Sant'Agostino è "figlio" della scuola neoplatonica , e arriverà a travasare le conoscenze alessandrine nel cristianesimo nascente.
Il vescovo di Ippona era nato nel 354 e morto nel 430 fu il primo pensatore ad attuare una sintesi tra fede, filosofia e vita. Agostino indagò sul problema dell'uomo, non però sull'uomo in generale, ma sull'uomo come individuo. Egli connesse al problema della creazione il grande problema del male poiché se tutto proviene da Dio, che è Bene, da dove proviene il male? "Le principali scuole neoplatoniche pagane furono: • scuola di Roma, fondata da Plotino e continuata dai suoi discepoli Porfirio e Amelio; • scuola di Alessandria, che ebbe tra i suoi esponenti Olimpiodoro e la filosofa e scienziata Ipazia, brutalmente massacrata e dilaniata dai cristiani; • scuola siriaca, fondata da Giamblico, discepolo di Porfirio, che si distinse per la sua revisione delle teorie del fondatore e per il marcato recupero delle tradizioni neopitagoriche e della sapienza contenuta nel cosiddetto Corpus Hermeticum; • scuola di Atene, legata con quella siriaca per il tramite di Prisco, i cui maggiori esponenti furono Plutarco di Atene e Siriano, e i cui risultati sono testimoniati dalle opere di Proclo; • scuola di Pergamo, fondata da Edesio di Cappadocia e che ebbe nell'imperatore Giuliano uno dei principali rappresentanti.

Il lato nascosto delle festività cristiane

Le festività cristiane viste e considerate da un teosofo Di Charles Webster Leadbeater(1854 – 1934) eminente membro della Società Teosofica, è stato anche co-fondatore, con J.I. Wedgwood, della Chiesa Cattolica Liberale, ancora diffusa nel mondo e prolifico scrittore su tematiche legate all’esoterismo. Ha collaborato a lungo con Annie Besant per la diffusione degli ideali teosofici tenendo conferenze, scrivendo articoli e saggi.
Prefazione Queste note sull’anno liturgico originariamente erano destinate al primo volume della Scienza dei Sacramenti, ma poi trovammo che c’erano molte più cose da dire al riguardo di quelle che possono essere compresse in un capitolo e che sembrava meglio dedicarvi un volume separato. Il libro in gran parte è la trascrizione di alcuni sermoni tenuti ad una congregazione, per i cui membri le idee qui contenute erano nuove. A causa del molto lavoro non ho più avuto il tempo di dare organicità agli scritti e quindi vi si troveranno occasionali ripetizioni e forme colloquiali, ma sembra la cosa migliore lasciare che essi vengano comunque diffusi perché in ogni modo possano essere di una qualche utilità agli studenti della Chiesa Cattolica Liberale e delle religioni in generale. Charles Webster Leadbeater Le festività Dio ha un piano per l’uomo e questo piano è l’evoluzione. Da Lui veniamo ed a Lui ritorneremo. I filosofi orientali ci dicono che siamo sul “Nivritti Marga”, il sentiero di ritorno e un poeta moderno ha detto la stessa cosa con altre parole: ”Lo scopo della vita è quello di ri-salire verso Dio”. La Chiesa di Cristo esiste unicamente per aiutare l’umanità in questo processo e ha metodi ingegnosi di offrire il suo aiuto. Uno di questi è la preparazione dell’anno liturgico, che differisce in qualche modo da quello della vita civile. Generalmente parlando, esso si divide in due parti. La prima è dedicata al metterci di fronte, in modo drammatico, i veri stadi del sentiero che abbiamo da percorrere, mentre la seconda alle applicazioni pratiche di quello che ci è stato insegnato. In tutte e due le sezioni sono disseminate varie festività, ciascuna delle quali serve a ricordarci qualcosa di importante e a sollecitarci a fare uno sforzo speciale, in tali occasioni, legato all’evento stesso. E, per rendere questo più facile, in quei momenti vi è un riversarsi supplementare di forze dal mondo superiore. Come diciamo nel nostro rituale: “La prima parte dell’Anno Liturgico, dall’Avvento alla Pentecoste, è dedicata alla commemorazione delle varie scene nel Mistero-Dramma della vita di Cristo, che è poi quello di ogni cristiano, come sottolineò Origene”. Ci sono quattro stadi principali in questo processo. Coloro che si sono interessati a tale argomento da un altro punto di vista, sanno che nelle religioni orientali essi sono chiamati “Le Quattro Grandi Iniziazioni”. Tutto ciò si trova anche nel Cristianesimo, ma le parole sono diverse. La prima è simbolizzata nella nascita del Cristo – ovvero quella prima Grande Iniziazione che è la nascita dell’uomo nella Grande Fratellanza Bianca, quella che nei Vangeli viene sempre definita come “Regno dei Cieli”. Non possiamo capire i Vangeli, trarne un senso, se consideriamo il Regno dei Cieli come il Paradiso dopo la morte. Se riusciamo a comprendere che il Regno dei Cieli è una grande comunità di esseri viventi, potremo intuire perché è difficile, gravoso per l’uomo ricco entrarci e potremo vedere come tutte le promesse fatte al riguardo siano esatte alla lettera, altrimenti non avrebbero alcun senso. Nella prima iniziazione ha luogo anche la nascita del Principio Cristico nell’uomo, poiché la monade e l’Ego - Spirito e Anima per usare termini cristiani – diventano Uno per un meraviglioso momento. Il secondo di questi grandi stadi o iniziazioni è simboleggiato dal Battesimo di Nostro Signore. Non dobbiamo confonderlo con quello che viene impartito ai bambini. E’ quello di cui parlava Giovanni il Battista: “Io vi battezzo con l’acqua, ma verrà dopo me Colui che vi battezzerà con lo Spirito Santo e col Fuoco”. C’è un “riversamento” dell’Iniziazione al Candidato, a quella seconda grande cerimonia, che ha davvero tutta l’apparenza di un Battesimo di fuoco. La trasfigurazione è la rappresentazione della terza di queste grandi iniziazioni, poiché veramente la Monade, lo Spirito, con essa trasfigura l’anima e l’anima a sua volta trasfigura il corpo – la personalità – come spesso la chiamiamo. Passando alla quarta troviamo che la gente pensa che sia un’Iniziazione davvero terribile: sebbene sia anche una di quelle di più grande gloria, visto che il candidato soffre la Crocifissione e, se la prova è superata con successo, è sempre seguita dalla vittoria della Risurrezione. Se leggiamo il resoconto della vita di qualche mistico che sia passato attraverso questo meraviglioso stadio, noteremo quanto questi eventi si susseguano da presso l’uno all’altro e quanto il Cristianesimo li rispecchi fedelmente. Vedremo inoltre come di solito ci sia un piccolo “trionfo terreno” come quello del Cristo nella domenica delle Palme e dopo sempre un complotto di nemici per fare cadere in disgrazia il candidato; ci sono di continuo incomprensione e malintesi che lo riguardano e lo mettono in cattiva luce e, dopo questo passaggio, viene la grande gloriosa Risurrezione oltre le sofferenze, nella vita eterna – eterna per quanto riguarda questo mondo, poiché l’uomo che ha fatto quel passo non ha più bisogno di rinascere ancora su questa terra. Dopo di ciò viene il quinto gradino, l’ultimo di tutti, quello che fa dell’essere un Superuomo. Esso è simboleggiato dall’Ascensione in cielo e dalla discesa dello Spirito Santo. C’è un’immensa quantità di dettagli in cui non entrerò ora, ma si può comunque vedere come l’interpretazione simbolica sia coerente e ragionevole. Non c’è discussione contro di essa, mentre l’affermazione che il resoconto sia storico può essere contestata su ogni punto. Molti degli eventi descritti come accaduti realmente nell’ultima vita di Cristo sono commemorati nel giorno in cui si presume siano avvenuti, sebbene su questo argomento ci siano state, nella storia ecclesiastica, notevoli divergenze di opinione. Il grande gruppo di festività le cui date sono determinate dalla Pasqua, cade in giorni diversi del mese ogni anno, ma viene deciso in riferimento alla luna piena della Pasqua, proprio come nell’antica Pasqua ebraica. L’altro gruppo di festività, dipendenti dal Natale, ha date fisse: l’annunciazione, il Natale stesso, l’Epifania e la Presentazione al Tempio del Cristo. È poco ragionevole supporre che ciascuna di esse sia storicamente corretta, ma sono state sistemate in maniera da essere conseguenti l’una all’altra. Avvento Per noi, come per la Chiesa di Roma e d’Inghilterra, la prima domenica dell’Avvento è considerata essere il capodanno ecclesiastico. Anche le chiese greca o russa osservano la stessa tradizione ma aderiscono al vecchio calendario e pertanto iniziano l’anno dodici giorni dopo di noi. La prima grande festa dell’anno ecclesiastico è quella della nascita del Cristo (Prima Grande Iniziazione) ma la Chiesa, nella sua saggezza, ha stabilito che per ciascuna delle festività più importanti ci sia un periodo di preparazione e così, prima del Natale, c’è la stagione dell’Avvento. Non è solo un modo di dire, quello di esortare ad essere preparati al Natale durante l’Avvento; il Natale non è solo un compleanno, la commemorazione della natività del Signore ma anche un momento in cui si riversano speciali forze spirituali e, se ben preparati, ne riceviamo con più abbondanza. Le quattro domeniche dell’Avvento sono dedicate dai mistici della Inner School of Christianity alla contemplazione delle quattro qualifiche per la prima Iniziazione: Discriminazione, Assenza di desiderio, Buona condotta e Amore, ma di questo non è rimasta traccia nella Chiesa moderna, salvo la sostituzione del rosa col viola come colore per la terza domenica. Come spiegato nella nostra Liturgia(e più esaurientemente nel primo libro di questa serie: “La scienza dei Sacramenti”), la Chiesa utilizza diversi tipi di vibrazioni, quelle che possiamo vedere come colori, per aiutarsi ad imprimere sui membri le varie lezioni che devono essere imparate nel corso dell’anno. Nei periodi di preparazione (Avvento, Quaresima e Vigilia di Ognissanti) il colore scelto come più utile è il porpora, che irradia luce ultravioletta e ha proprietà purificanti e risananti. All’incirca verso la metà dell’Avvento e della Quaresima c’è una domenica in cui è prescritto il rosa. In base a certi curiosi equivoci questi periodi preparatori sono stati considerati come momenti di penitenza e di afflizione e si supponeva che la domenica “in rosa” fosse stata introdotta come una specie di mitigazione del dolore, un momentaneo sollievo dall’austerità. Una teoria più attendibile spiega che, essendo il nostro amore per Dio l’unico motivo del nostro tentativo di autopurificazione, questo drammatico cambio di colore nel bel mezzo della stagione ha lo scopo di ricordarci il profondo e vero affetto che deve sottostare e permeare ogni sforzo che facciamo, se esso deve avere un successo duraturo. Deve ricordarci anche la gioiosità che dovrebbe caratterizzarci per tutto l’anno, poiché non è con l’afflizione senza costrutto per i nostri peccati, ma con la ferma risoluzione a non commetterli più, che possiamo renderci adeguati ad utilizzare al meglio la gloriosa festività che si approssima. La Chiesa Cattolica ha sempre riconosciuto la natura duale dell’Avvento, che è sì la preparazione per la venuta del Cristo, ma anche la celebrazione della nascita nella Sua ultima vita sulla terra. Le Chiese di Roma e d’Inghilterra parlano di questa seconda venuta e implorano i loro membri a prepararsi, ma anche qui c’è una grande quantità di equivoci. Nelle Scritture Cristiane questo fatto è confuso con l’idea della fine del mondo, cosicché la gente che pensa alla seconda venuta del Cristo generalmente la collega con la fine di tutto quello che conosce e così la teme. Nei Sermoni e negli Inni collegati con questa Venuta, si trascina ancora un sentore della penosa anticipazione dell’orribile discesa dal cielo fisico, accompagnata da spaventosi fenomeni meteorologici. Vorrei che fosse chiaro che tutto ciò non è solo folle ma anche blasfemo e che gli uomini che insegnano tale erronea concezione della vera dottrina cristiana e così diffamano e degradano il nostro Padre Celeste, hanno responsabilità molto serie. Niente di tutto ciò si trova naturalmente tra i veri mistici, che sanno da sempre che Dio è Amore e che non hanno mai temuto nessuna manifestazione della Sua presenza, perché sanno che, sia che lo vedano o meno, egli sarà sempre con loro fino alla fine dei tempi. Tutta la paura di Dio viene da un equivoco. La seconda Venuta del Cristo è davvero connessa con una fine; ma non è la fine del mondo, bensì la fine di un’era. La parola greca AION, è la stessa di eone in inglese, e proprio come Cristo aveva detto 2000 anni fa, la Legge Ebraica era arrivata alla fine – poiché egli era venuto a portare una nuova Legge – quella del Vangelo. Così la diffusione del Vangelo sarebbe finita qualora egli fosse venuto di nuovo a portarne un’altra. Egli darà gli stessi insegnamenti poiché la Verità è una, ma forse in una nuova veste, più adatta ai tempi. L’insegnamento sarà certo lo stesso, dal momento che è apparso in tutte le fedi esistenti le quali, sebbene differiscano nel modo di presentarlo, sono tutte assolutamente d’accordo nella maniera di vivere cui chiedono ai loro seguaci di adeguarsi. Troviamo considerevoli differenze tra gli insegnamenti esoterici di Cristianesimo, Buddismo, Induismo, Islamismo ma se esaminiamo gli uomini retti di ciascuna religione e osserviamo la loro vita pratica, troveremo che conducono tutti esattamente la stessa vita e aderiscono tutti alle stesse virtù che un uomo giusto deve possedere, tanto quanto esistono le stesse malvagità. Come persone di buon senso, dobbiamo riconoscere che le cose davvero importanti in ogni religione non sono le vaghe speculazioni metafisiche su questioni riguardo alle quali nessuno può veramente sapere qualcosa di certo, poiché queste non hanno influenza sulla nostra condotta; ciò che importa sono i precetti che toccano la vita quotidiana, che ci fanno questo o quel tipo di persone, nelle relazioni con gli altri. Tali precetti sono gli stessi in tutte le religioni esistenti e così sarà per quelle nuove, quali che esse siano. Forse possiamo inoltrarci un pochino nel considerare quello che Egli insegnerà nella Sua Venuta, poiché c’è qualche informazione al riguardo che possiamo considerare. Ricorderete che prima di questo Istruttore del Mondo la carica era ricoperta dal Signore Gautama, colui che gli uomini chiameranno il Buddha. Egli era definito Signore della Saggezza. Diede molti insegnamenti, tutti però centrati sull’idea che conoscenza significa salvezza e che i mali del mondo provengono dall’ignoranza. L’attuale Istruttore del Mondo porta il nome di Maitreya, che vuol dire gentilezza o compassione e, proprio come il Signore Buddha veniva chiamato Signore della Saggezza, il Maitreya è definito Signore dell’Amore o della Compassione. La Verità Centrale del Suo insegnamento, quella su cui mette l’enfasi, è che tutti i mali del mondo vengono da una mancanza di amore e fratellanza. Due volte Egli è apparso: come Krishna in India e come Cristo in Palestina. Nell’incarnazione come Krishna la grande caratteristica era sempre l’amore: ancora oggi la religione che ha fondato si perpetua nella più toccante devozione verso Krishna bambino. Di nuovo, nella sua nascita in Palestina, l’amore era il grande tema del Suo insegnamento. Diceva: “Vi do questo nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come Io ho amato voi” e chiese ai suoi discepoli di essere Uno con Lui così come Egli era Uno con il Padre. Il Suo discepolo più vicino, S. Giovanni, che visse molto a lungo (oltre 100 anni), persino nei giorni della sua estrema vecchiaia, nonostante non riuscisse a tenere più lunghi sermoni, esortava i più giovani dicendo loro di amarsi gli uni gli altri. Anche quel piccolo libro che si chiama: “Ai Piedi del Maestro” e che raccomando vivamente, i cui insegnamenti vennero impartiti da un Maestro di Saggezza che è lui stesso discepolo dell’Istruttore del Mondo, è fortemente permeato dallo stesso Spirito di Amore. Per noi che sappiamo dell’approssimarsi della sua venuta, l’Avvento non è un tempo di timore ma di gioioso ricordo e di ancor più gioiosa anticipazione. Nella Stagione dell’Avvento dovremmo avere ben presente la necessità della qualità della discriminazione nel prepararci per la nostra propria Iniziazione e anche per la venuta del Signore. Potrebbe essere utile per noi pensare a come questa grande qualità possa essere utilizzata nei nostri sforzi per diffondere la conoscenza dell’ormai prossima venuta e a come, nel nostro lavoro di preparazione, possiamo usare la saggezza del serpente tanto quanto l’innocuità della colomba. Natale Natale è una delle più grandi festività della Chiesa, superata forse solo dalla Pasqua, poiché se in questo giorno celebriamo la nascita del Sole Dio, a Pasqua acclamiamo la Sua vittoria sul potere delle tenebre. Il Cristianesimo, come tutte le altre religioni, è stato fondato nell’emisfero nord e conseguentemente le sue festività cadono in un momento poco appropriato, se consideriamo la cosa dall’emisfero sud. Questa festa si celebra all’equinozio, quando il giorno diventa più lungo della notte e simboleggia la vittoria del Sole Dio sul potere delle tenebre. Era stata istituita migliaia di anni prima della nascita di Gesù ed è stato abbastanza naturale per la Chiesa delle origini adottarne le date, per le sue celebrazioni. La vera data della nascita di Cristo non la conosciamo, ma da varie indicazioni sembrerebbe probabile che fosse da qualche parte in primavera. Il 25 dicembre venne comunque scelto agli inizi della storia ecclesiastica per la sua coincidenza con la grande celebrazione del Sole e venne naturale avvantaggiarsi di quella che era già una festa pubblica. Coloro che non afferrano il significato simbolico della vita del Cristo naturalmente pensano che tutte queste festività ecclesiastiche siano semplicemente storiche ma noi che stiamo cercando di penetrare un po’ più profondamente nella Verità, troviamo interessante cercarvi significati più profondi. Quali sono i punti che la Chiesa Cattolica Liberale ama rammentare riguardo alla grande festa del Natale? A me sembra che ce ne siano almeno sette e cercherò di spiegarveli uno per uno. 1) Non possiamo certamente ignorare l’aspetto storico del giorno, anche se sappiamo che non è un vero anniversario. Siamo chiamati, nel giorno di Natale, a considerare la discesa sulla terra del grande discepolo Gesù, e a ringraziarlo per questo e per tutto ciò che è poi avvenuto di conseguenza. Fu Lui a dare in prestito il Suo corpo al Grande Istruttore, così che potesse venire a fondare la Sua religione e a diffondere il Suo Vangelo sulla terra. Questa idea può sembrare strana a certuni ma è comunemente accettata da coloro che hanno afferrato il concetto di reincarnazione, da chi conosce qualcosa del potere e della dignità del Grande Uno che noi chiamiamo l’Istruttore del Mondo. Egli sa che non sarebbe “economico” per lui e non sarebbe stato un buon uso dei suoi meravigliosi poteri, occupare un corpo umano attraverso tutto il periodo della nascita e della crescita, ovvero di quelli che sono i primi stadi della vita. Così uno dei suoi discepoli si è fatto carico di tutto questo per suo conto ed Egli, una volta pronto a farlo, è “entrato” nel corpo pienamente sviluppato e pronto e lo ha usato per i soli scopi per i quali ne ha preso possesso. Poiché Egli stesso vive abitualmente su un piano ben più alto e da là porta avanti un lavoro così magnifico, è così oltre le nostre concezioni, che ci è di poca utilità cercare di capirlo, se non nelle linee principali. In questo caso particolare, un discepolo avanzato del Cristo Signore nacque nell’anno 105 a. C. tra i discendenti di Re David, come Figlio di Giuseppe e Maria e gli fu dato il nome di Gesù. Egli si prese cura di quel corpo fino a che ebbe circa 30 anni e poi lo passò al Cristo, che lo utilizzò per i tre anni del Suo ministero terrestre. Il discepolo Gesù poi rinacque come Apollonio da Tiana, proprio in quella data che noi di solito consideriamo come l’inizio dell’era Cristiana e mille anni più tardi riapparve come il Grande Maestro Ramanujacharya, che lasciò una profonda impronta sul pensiero indiano. Comunque sia, noi non lo riveriamo più come discepolo, ma come Maestro Gesù. Non è necessario credere nell’esattezza storica della vita di Gesù, poiché le stesse incantevoli leggende riguardano anche le altre incarnazioni dell’Istruttore del Mondo ed è piuttosto difficile supporle valide alla lettera. Ciascuna di queste nascite, però, è un grande evento ed è portatrice di fenomeni inusuali, provenienti dai piani superiori, che qualcuno avrà pur visto, tra coloro che in tale periodo vivevano sul piano fisico. 2) In questa occasione ricordiamo la discesa della seconda persona della Santa Trinità nella materia e, proprio come nel ciclo più piccolo dobbiamo profonda gratitudine al Grande Istruttore del Mondo per la Sua discesa in un corpo umano allo scopo di guidarci, così dobbiamo profonda gratitudine per la grande Deità Solare stessa e per quella Sua volontaria limitazione del Suo Potere e Gloria, grazie alle quali siamo venuti in esistenza. Ci sono molte persone, al mondo, che affermano di non sentire gratitudine per essere state portate all’esistenza, poiché la vita per loro è più dolore che gioia e che se fossero state consultate prima avrebbero preferito non essere qui. Ma chi parla in questo modo pensa solo a quel poco che sa e vede del grande ciclo della vita, non conosce niente di quella Gloria che sta davanti a noi e non si rende affatto conto del potente piano di cui è un’infinitesima parte. Coloro tra noi che sono tanto fortunati da conoscere almeno un poco di quel glorioso disegno, non possono far altro che sentirsi pieni di viva ma umile ammirazione per esso, poiché vedono che, oltre la nostra incapacità del presente stanno la meraviglia e la bellezza del futuro. Cerchiamo di mostrare gratitudine, allora, provando a comprendere la Sua manifestazione, per quanto siamo capaci e di cooperare intelligentemente con essa. 3) Come già detto il Natale ci ricorda la prima delle Grandi Iniziazioni, della quale è un simbolo. Dobbiamo pensare allora che cosa significa questa prima Iniziazione per noi – essa è realmente una seconda nascita – una nascita nella grande Fratellanza Bianca. L’Istruttore del Mondo è davvero un Salvatore, ma non solo per l’Iniziato, bensì per tutti noi: i Suoi insegnamenti sono quelli che ci salvano dall’errore e dall’ignoranza. In tale occasione non solo dovremo guardare con gioia al momento in cui questa meravigliosa Iniziazione sarà nostra, ma dovrebbe pure essere il tempo per la gratitudine per coloro che l’hanno già ottenuta e quindi ringraziare per i Santi, per l’elevazione che hanno dato all’umanità e non solo con l’incoraggiante esempio. So bene che per molti buoni e onesti cristiani è uno shock sapere che il racconto del Vangelo non è storia ma mito. Quando si afferma questo, la gente immediatamente dice: “Ci stai portando via il nostro Gesù, il nostro Salvatore, negando la Sua esistenza storica”. Non lo stiamo negando, assolutamente, ma sosteniamo che la storia del Vangelo, come ora è scritta, non si è mai inteso che fosse il vero resoconto della vita di quel grande Istruttore del Mondo che è stato il Cristo. Poco sappiamo della vera storia della Sua vita. Pare certo che alcune parti di essa siano intrecciate con questo mito; sembra però che alcune delle affermazioni che nel Vangelo sono attribuite al Signore Cristo siano state da Lui veramente pronunciate. Pare egualmente che altre non lo siano state ed è anche assodato, per chiunque comprenda la materia e abbia letto qualcosa sulle religioni comparate, che l’intero resoconto sia stato reso in quella forma allegorica intenzionalmente; che rappresenti non la storia della vita di una qualche persona, ma la storia spirituale di ogni vero seguace del Cristo. Ovviamente non è una storia, ma un dramma, una collezione di episodi ordinati come per una rappresentazione su un palcoscenico. Questa idea che sembra così nuova a molti, non lo è poi per tutti. Era piuttosto evidente per i più grandi tra i Padri della Chiesa. E’ strana solo per noi, poiché abbiamo ereditato una buona parte delle ombre del Medioevo. Ormai non è più il tempo della fede cieca, verso ciò che la nostra ragione ci dice essere impossibile. Abbiamo bisogno di comprendere il significato di questa bellissima storia e questo lo possiamo fare facilmente. Origene, il più grande tra gli scrittori degli inizi del Cristianesimo, ci spiega la cosa in maniera molto chiara. Egli afferma che a quell’epoca c’erano, come certamente ci sono ora, due tipi di Cristiani. Coloro che egli chiamava Cristiani “somatici”, che significa Cristiani “fisici”, intendendo dire coloro che credono nella storia come ad una storia. Della loro dottrina egli diceva: “Cos’altro puoi avere di meglio per l’insegnamento alle masse?”. Ma aggiungeva come parimenti evidente che i Cristiani “spirituali” professano una forma ben più alta di religiosità, in cui si possono cogliere i significati profondi di tutte queste allegorie. La rappresentazione del Cristo, nelle Sue parabole, è quella di Colui che narra una storia con due significati. In primo luogo la storia puramente “fisica” per i bambini, che descriveva (per esempio) come il seminatore svolgeva il suo compito; in secondo luogo, c’era una spiegazione intellettuale, dove il seme rappresentava la parola di Dio, il seminatore era il predicatore mentre i differenti tipi di terreno erano i diversi tipi di cuori sui quali si imprime. Terzo punto: c’era sempre un significato interiore e, ancor più, spirituale, che non viene rivelato, che in questo caso particolare è il riversarsi della vita divina sui vari piani e sui vari mondi. Origene sostiene che proprio come le parole del Cristo hanno anche un’interpretazione interiore, così pure l’intero racconto del Cristo ha un’interpretazione esoterica, che può essere trovata solo se studiamo le similitudini con le altre rappresentazioni della stessa grande allegoria. E afferma che, dal momento in cui comprendiamo le verità universali che la narrazione rivela, essa stessa non ha più importanza. Il suo significato è chiaro, descrive il processo che sta davanti ad ogni Cristiano. Le persone che studiano in profondità queste tematiche talvolta vengono disturbate dal fatto che vi siano molte strette rassomiglianze tra la leggenda cristiana e quella di altri Soggetti che vennero molto prima del Cristo, ma dobbiamo accettare l’idea di un complessivo plagio degli Scritti Cristiani di autori precedenti, o ancora dobbiamo supporre che tutti loro cerchino di mostrare la stessa grande verità, sebbene ognuno a modo suo. Questa interpretazione troverebbe conferma in San Paolo, anche quando dice, nella lettera agli Ebrei: “Dio, che in tempi e modi diversi parlò, nel passato, ai nostri Padri tramite i profeti…”, intendeva dire non i pochi profeti ebrei ma tutti i grandi profeti, i Grandi Istruttori del Mondo. Invece i Cristiani sono ossessionati dall’idea che il Cristianesimo sia la sola religione e che le altre siano solo superstizioni pagane. Questa è un’attitudine ignorante; la gente religiosa dovrebbe interessarsi a tutte le religioni. Capita che noi siamo nati (ma non è un caso, dipende anche dai nostri meriti) in questa razza o paese, dove la religione riconosciuta sia il Cristianesimo. Non è un caso. E’ quello che ci siamo meritati, poiché le migliori opportunità per noi sono in questo ambiente, mentre altre persone meritevoli tanto quanto noi sotto ogni aspetto, vengono alla luce in altri posti che per loro sono l’opportunità di questa incarnazione. 4) Nel tempo dell’Avvento, la Chiesa attende la venuta di Nostro Signore e, durante il Natale, la celebrazione porta non solo la nostra gratitudine per la sua ultima venuta, ma anche per quel che verrà. Poiché Egli è pronto a donare e spargere di nuovo il seme della Sua Parola, il Suo aiuto e le Sue benedizioni. Anche ora sembrerebbe esserci una generale aspettativa per qualche Grande Essere. Stavolta le condizioni sono molto diverse ma coloro che hanno ragione di attenderne l’arrivo dovrebbero prepararne la Via per rendere il Suo cammino più agevole. Capisco che per molte persone, cresciute con la convinzione che ci sia una sola religione al mondo, sia difficile o strano pensare ad una seconda venuta del Cristo ma dobbiamo capire che il mondo sta evolvendo rapidamente e che potrebbe essere necessaria una Sua visita per aiutarci nella nostra evoluzione. C’è una grande attesa in tutto il mondo per questa nuova venuta: gli Hindù aspettano il Kalki Avatara, i Buddisti il Signore Maitreya. Pure tra i musulmani e gli Zoroastriani c’è la tradizione di questo Grande Essere che deve venire. E, tra i Cristiani, gli Avventisti del Settimo Giorno e altri simili, mentre tra noi abbiamo l’Ordine della Stella d’Oriente, che sta cercando di preparare i suoi membri (ma anche gli “esterni”) alla ormai prossima venuta dell’Istruttore del Mondo. Il bisogno del mondo è certamente grande e c’è un passo in una scrittura, molto più vecchia di tutte le nostre, che afferma: “Quando il male trionfa, io vengo a portare aiuto”. 5) Non dobbiamo scordare che c’è un altro aspetto della venuta del Cristo – è quello nel cuore di ciascuno, ovvero lo sviluppo del principio cristico in noi. C’è un grande e glorioso mistero in questa affermazione: la meravigliosa e intima relazione tra la Seconda Persona della Santissima Trinità e il Grande Istruttore del Mondo e il legame che li unisce a quel Principio Cristico che sta in ogni uomo e che spesso chiamiamo intuizione. Ma esso ha un significato molto più ampio di questo: vuol dire: “Quella Saggezza che Conosce” ma non tramite il processo della ragione, bensì per “interiore certezza”. Tale principio è in ognuno di noi, deve essere risvegliato e man mano che ciò accade, realizziamo cos’è la vera fratellanza tra gli uomini, poiché capiamo quella che è la Paternità di Dio. 6) Tutte le grandi festività hanno anche un altro aspetto da considerare: esse sono canali speciali di energia, occasioni in cui ha luogo un riversarsi più grande di potere divino – più grande che nell’ordinario, intendo. Questo va visto non come una limitazione dell’Onnipotenza di Dio, ma tenendo in considerazione che in certi momenti talune energie sono più disponibili che in altri, quando i canali sono liberi, e il Natale è uno di questi. Uno dei metodi per riversare sulla terra la Sua influenza, è la Santa Comunione. Ma anche in occasione di Natale, Pasqua, Ascensione e Pentecoste, vi è una straordinaria effusione di forze aiutatrici, ciascuna delle quali proveniente dai piani più alti, con un suo preciso carattere e che porta del bene a tutti i livelli, senza essere sprecata. Per esempio nell’Eucarestia vengono i Grandi Angeli in aiuto e il punto centrale dell’intera Cerimonia, la Consacrazione, è l’azione di Nostro Signore tramite l’Angelo della Presenza. E quando una persona è nella condizione di amore, devozione, felicità, dai piani più alti, in risposta, ci sarà una effusione di amore e benedizioni commisurata ai suoi sentimenti. Ci si potrebbe chiedere perché tale generoso riversarsi non accada sempre. Perché non sempre siamo pronti a riceverlo. Dio non ci forza, non è il Suo modo di trattare con noi, non aiuterebbe la nostra evoluzione. Dobbiamo essere aperti, per ricevere la Sua Grazia, senza dimenticare che, in occasione delle grandi festività, mentre su questo piano noi ci prepariamo ad essa, enormi folle di Angeli aiutano a dispensare quella energia. Naturalmente questo vale anche per il Natale o altre occasioni di altre religioni. 7) Infine il Natale è una stagione di gioia, di pace per gli uomini di buona volontà. Questo spirito natalizio è un vero sentimento di fratellanza, che si diffonde in quel giorno. Non dovremmo riservarlo solo al Natale, naturalmente e certamente dovremmo cercare di condividerlo con gli altri, con tutta l’umanità. La storia dell’avvento dei Magi, così semplicemente raccontata nei Vangeli, parla appunto dei “Magi”, o Uomini Saggi, coloro che oggi chiameremmo studenti del lato nascosto delle cose, e a quell’epoca questo significava anche lo studio dell’astrologia. Questo spiegherebbe il loro interesse per una stella, che poi li guidò alla grotta. Dovevano essere rimasti terribilmente impressionati dal magnetismo che vi percepivano, tanto che lasciarono i loro doni e, sopraffatti da timore reverenziale, se ne andarono. I loro doni sono sempre stati interpretati dalla Chiesa in senso mistico: l’oro indicava che il Bambino era un Re, l’offerta di incenso denotava la sua provenienza divina e la mirra, essendo una delle spezie usate per la sepoltura, era una specie di presagio, un simbolo della morte che Egli si preparava ad affrontare. Poiché i Magi non erano Ebrei, questa è sempre stata considerata come l’occasione della presentazione di Gesù ai Gentili, a testimonianza che la missione di Gesù non era solo tra la Sua Gente, ma in tutto il mondo. Prendiamo a cuore la lezione della Stella. Per tutto l’Avvento ci siamo degnamente preparati a celebrare la nascita di Gesù, ora questa festività, che avviene esattamente dodici giorni dopo, ha lo scopo di indicarci come tradurre in azione tutta quella gioia. Come poter condividere tutto ciò con i Fratelli? I tre Magi sono stati i primi predicatori mistici, i primi a lasciare la guida dei loro regni e ad andare nel mondo a testimoniare la nascita del nuovo Re, un Re non di questo mondo di materia, ma dei cuori e delle anime degli uomini. A nessuno di noi è richiesto un tale sacrificio, ma possiamo ugualmente portare “la buona novella” attorno, dedicandovi tutte le nostre energie. Cerchiamo di essere pronti a riconoscerlo, a seguirlo, e offriamogli l’oro del nostro amore, l’incenso della nostra adorazione e la mirra del sacrificio di noi stessi, così la Stella non avrà brillato invano per coloro che avranno saputo riconoscere la Sua venuta. Charles Webster Leadbeater

sabato 29 dicembre 2012

FERDYNAND OSSENDOWSKI

Alla ricerca del re del Mondo pensando ai poteri occulti e la vecchia EURASIA
:::: Giovanni Valvo :::: 28 dicembre, 2012 :::: «Scrittore polacco, nato il 27 maggio 1876 a Vitebsk. Laureatosi a Parigi, fu dal 1899 al 1903 docente di fisica e chimica al politecnico di Tomsk, donde fece lunghi viaggi in Siberia e nell’Estremo Oriente. Per alcuni anni ebbe anche incarichi importanti nell’esercito russo dell’oriente, e dal 1909 al 1917 presso il ministero della Marina a Pietroburgo. Professore di chimica al politecnico e all’accademia agraria di Omsk dal 1918 al 1920, fece parte del governo di Kolčak. Dal 1922 al 1924 insegnò geografia economica in alcune scuole superiori di Varsavia». Così l’Enciclopedia Treccani, alla voce “OSSENDOWSKI”, descrive brevemente la vita di una delle figure più controverse, misteriose, ma sicuramente affascinanti del secolo scorso. Membro della resistenza polacca negli anni dell’occupazione tedesca e nemico giurato dei sovietici, Ferdynand Antoni Ossendowski fu sempre un intellettuale liberale, sebbene progressista. Nel 1905, durante i moti rivoluzionari conseguenti alla sconfitta zarista nella guerra russo-giapponese, lo scrittore polacco prese parte alle attività del Comitato Rivoluzionario Centrale, un’organizzazione di sinistra che cercò, senza successo, di prendere il potere in Manciuria. Fallita la rivoluzione, Ossendowski organizzò uno sciopero contro la brutale repressione del Regno di Polonia, venendo arrestato e condannato a morte da un tribunale militare, pena poi commutata in diversi anni di lavori forzati. Cosa spinse, dunque, un patriota polacco critico nei confronti dell’autocrazia zarista ad aderire, tre lustri più tardi, al progetto del barone Roman von Ungern-Sternberg di un impero teocratico paneurasiatico? La risposta a tale quesito va ricercata innanzitutto nelle vicissitudini scaturite dallo scoppio della guerra civile russa all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre. Ossendowski si era da poco trasferito ad Omsk, dove era stato chiamato ad insegnare chimica al politecnico e all’accademia agraria della città. Tra i suoi “protettori”, l’ammiraglio Aleksandr Vasil’evič Kolčak, comandante della Flotta del Mar Nero impegnata nel conflitto mondiale in corso. Alla presa del potere da parte dei bolscevichi, Kolčak si dimise dal suo incarico, organizzando un esercito controrivoluzionario e un governo, con sede ad Omsk, che in poco tempo riuscì ad imporre la propria sovranità sull’intera Siberia. Convinto della missione dell’ammiraglio, con cui condivideva un’avversione viscerale per i bolscevichi, Ossendowski si unì al suo governo in qualità di funzionario del Ministero delle Finanze e dell’Agricoltura. Tuttavia, nonostante i successi iniziali, le truppe di Kolčak furono ben presto scacciate dall’Armata Rossa; costretto a ritirarsi ad Irkutsk, nel 1921 l’ammiraglio sarebbe infine stato catturato e ucciso dai bolscevichi. Con le sorti del conflitto sempre più compromesse dalla vittoriosa controffensiva bolscevica, Ossendowski fu costretto a fuggire di città in città fino a raggiungere, all’inizio del 1920, Krasnojarsk. Un giorno, durante una visita ad un amico, la sua casa fu circondata da un distaccamento di soldati rossi venuti apposta per catturarlo. Costretto ad una fuga precipitosa, lo scrittore polacco divenuto bersaglio del nuovo regime russo indossò una vecchia tenuta da caccia dell’amico e acquistati, strada facendo, «un fucile, trecento cartucce, un’ascia, un coltello, un cappotto di montone, tè, sale, gallette e un bollitore», iniziò un’incredibile quanto rischiosa peregrinazione. Dopo un infelice tentativo di raggiungere l’Oceano Indiano attraverso il Tibet, Ossendowski dovette trascorrere molti mesi confrontandosi con gli orrori della violenza e della paura, lottando per sopravvivere attraverso l’Asia Centrale. Ed è proprio nel cuore dell’Asia, nella sconfinata, misteriosa e ricca Mongolia, che lo scrittore polacco fece le sue più importanti esperienze, le stesse che poi narrò con magistrale bravura nel suo libro più famoso, “Bestie, uomini e dei”. Gli sconvolgimenti geopolitici conseguenti allo scoppio della rivoluzione in Russia avevano posto gli uni contro gli altri mongoli, cinesi, truppe bianche e bolscevichi, ciascuno deciso a difendere i propri interessi, talvolta mutevoli, tessendo intrighi, esercitando violenze e violando accordi. Fu in tale clima, cruento e imprevedibile, che Ossendowski fece il suo incontro con il barone Roman von Ungern-Sternberg, noto anche come Ungern Khan, “Barone Nero” e “Barone sanguinario” a causa della durezza dei metodi da lui impiegati contro la popolazione locale e i suoi stessi sottufficiali. Nato secondo alcune fonti in Austria, ma più probabilmente in Estonia, da una famiglia appartenente alla nobiltà baltica di lingua tedesca, Ungern-Sternberg era un ex ufficiale dell’impero zarista contrario tanto al governo bolscevico quanto alle forze bianche di Kolčak, di cui non riconobbe mai l’autorità. Capo di stato maggiore agli ordini del generale cosacco Grigorij Semënov, che con il sostegno del Giappone si adoperava per la creazione di uno stato fantoccio in Transbaikalia, il 7 agosto 1920 Ungern-Sternberg decise di rompere con l’atamano, trasformando la sua Divisione Asiatica di Cavalleria in un’unità di guerriglia al servizio di una grande controrivoluzione eurasiatica. Ritenendosi la reincarnazione di Gengis Khan, il barone mirava infatti alla liberazione della Mongolia dall’occupazione cinese con l’obiettivo di farne uno stato teocratico di tipo lamaista dal quale scatenare le masse orientali contro l’Occidente materialista, passando per la Russia bolscevica. Quando Ossendowski, nel corso della sua fuga dai bolscevichi, raggiunse la Mongolia, Ungern-Sternberg lo accolse con ospitalità, concedendogli il diritto di cittadinanza nei territori sotto il suo controllo: era l’inizio di un sodalizio destinato ad essere breve, ma intenso. Arruolatosi come ufficiale al comando di una delle unità di autodifesa dell’esercito del barone – nel quale confluivano mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, tibetani, coreani, giapponesi e cinesi – Ossendowski divenne ben presto suo consigliere politico e capo dei suoi servizi segreti, avendo già ricoperto, con ogni probabilità, incarichi analoghi nel governo di Kolčak. Stando a quanto sostenuto da Louis de Maistre, Ossendowski sarebbe infatti stato coinvolto nell’affare Sisson, un insieme di documenti che sostenevano una tesi cospirativa volta a dimostrare che la Rivoluzione russa era stata sobillata dalla Germania per disimpegnare il fronte orientale e concentrare tutte le truppe in Occidente. Nonostante la loro scarsità, gli elementi disponibili sulla biografia di Ossendowski sembrano avvalorare l’ipotesi che lo scrittore polacco abbia effettivamente svolto attività di spionaggio per il fronte dei Bianchi prima di unirsi all’esercito di Ungern-Sternberg. Nell’ambito del suo contributo al progetto controrivoluzionario di quest’ultimo, alcuni studiosi hanno anche ipotizzato che la mano di Ossendowski abbia prestato aiuto nella stesura dell’Ordine n. 15, il celebre proclama di chiamata alle armi con cui il barone intendeva scatenare la razza gialla contro l’Occidente. Il tono retorico del testo lascia infatti presupporre l’intervento di persone che avessero qualche abilità letteraria, piuttosto che quello di militari poco avvezzi alla scrittura. Tuttavia, gran parte dell’attività svolta dallo scrittore polacco in Mongolia tra l’agosto e la fine del 1920, quando fu inviato in missione diplomatica in Giappone, resta tutt’oggi avvolta nel mistero, come enigmatica rimane anche la sua fine. Il 1° gennaio 1945 la villetta di Ossendowski nei pressi di Varsavia venne visitata da un ufficiale tedesco, che si trattenne a parlare con lo scrittore per qualche ora prima di uscire dall’abitazione con una copia di Bestie, uomini e dei. Alcuni testimoni e giornalisti dell’epoca avanzarono l’ipotesi che l’ufficiale tedesco potesse essere un parente dell’ormai defunto Ungern-Sternberg, un certo Dollert che lavorava per i servizi segreti tedeschi e che nel dopoguerra si sarebbe fatto frate francescano ad Assisi. Nella copia del libro – si disse – potevano esserci documenti riservati riguardanti le vicende di cui Ossendowski era stato testimone; da qui l’interesse da parte dell’ufficiale. Ciò che è certo è che appena due giorni dopo, il 3 gennaio 1945, Ossendowski si spense, portando nella tomba i segreti relativi agli aspetti esoterici di Bestie, uomini e dei. Il libro, diventato un classico del romanzo d’avventura, terminava con la visione di «una nuova, immensa migrazione di popoli, l’ultima marcia dei Mongoli» alla conquista dell’Eurasia. Un impero, quest’ultimo, alla cui creazione lo stesso Ossendowski, a dispetto delle sue convinzioni personali, si era adoperato nei mesi trascorsi al servizio di Ungern-Sternberg, colui che, con il senno di poi, può essere considerato come l’ultimo dei Mongoli e il primo degli eurasiatisti. * Giovanni Valvo è un analista geopolitico indipendente specializzato in questioni eurasiatiche.

venerdì 28 dicembre 2012

Varcando la porta della vita

Il pertugio che divide i due mondi
Nel ventre di una donna incinta due bambini si incontrano. Uno domanda all’altro: -Tu credi alla vita dopo il parto? -Certo! Qualcosa deve esistere dopo il parto. A volte siamo qui perché è necessario prepararsi a quello che saremo più avanti. –Sciocchezze. Non c’è vita dopo il parto! Come sarebbe questa vita? -Non lo so, però sicuramente ci sarà più luce di qui! Forse cammineremo con i nostri piedi e ci alimenteremo attraverso la bocca. –Questo è assurdo! Camminare è impossibile. E mangiare per la bocca? E’ ridicolo! E’ attraverso il cordone ombelicale che ci alimentiamo! Ti dico una cosa: la vita dopo il parto è da escludere! Il cordone ombelicale è troppo corto. –Ma io credo che ci dev’essere qualcosa. E forse può essere solo un po’ diverso da quello che siamo abituati ad avere qui. –Però mai nessuno è tornato da la’, dopo il parto. Il parto è la fine della vita. E in fin dei conti, la vita non è altro che un’esistenza angosciosa nell’oscurità che non porta a niente. –Beh, non so esattamente come sarà la vita dopo il parto, ma di sicuro vedremo la mamma e lei avrà cura di noi , e ci amerà. –Mamma? Tu credi nella mamma? E dove credi che sia, lei? - Dove? Tutto intorno a noi! E in lei e attraverso lei noi viviamo. Senza di lei tutto questo mondo non esisterebbe. – Però io non ci credo! Non ho mai visto la mamma, quindi è logico che non esiste. –Bene, puoi pensarla così; però a volte, quando stiamo in silenzio, tu puoi sentirla cantare o sentire come accarezza con infinita dolcezza il nostro mondo. Sai, penso che ci sia una vita vera che ci aspetta, e che adesso ci stiamo solo preparando per lei…

giovedì 27 dicembre 2012

La prima religione Italica ed europea: IL PAGANESIMO

IL SASSO DEL REGIO
Il reperto Che a culti pagani si siano sovrapposti nel corso dei secoli culti cristiani è un fatto consolidato per quanto concerne molti luoghi sacri delle nostre campagne, trovarne l’evidenza tangibile è tuttavia sempre una sorpresa; quando poi emergono prove che residui del culto pagano palesemente perdurano evolvendosi a fianco del culto cristiano fino ai nostri giorni, la cosa diventa davvero interessante e degna di esame. Il “Sasso del Regio” scoperto di recente a Stia, in Casentino, rappresenta qualcosa che va ben oltre tutto ciò e ben oltre ogni possibilità di piena comprensione. Vi sono in Casentino, quattro santuari dedicati alla Madonna sui siti di altrettante teofanie manifestatesi fra il XIV e il XV secolo ed è chiaro che questi "interventi della Madonna" abbiano avuto luogo al fine di por termine ad un persistente culto popolare pagano.
In una località presso il Santuario della Madonna delle Grazie, nel Comune di Stia in provincia di Arezzo, sul pendio sud occidentale del Monte Falterona, abbiamo riscontrato, su segnalazione del proprietario del terreno, l’esistenza di un manufatto consistente in elaborate figurazioni incise su una superficie verticale di pietra arenaria. La parete, perfettamente orientata verso ovest, appartiene ad un masso erratico spaccato da un grosso rovere cresciuto da inseminazione spontanea in un suo anfratto, non meno 50 anno or sono. La complessa raffigurazione, di circa 130 cm di altezza, è dominata da ciò che sembra a prima vista un “albero della vita” fruttifero che si ramifica dai due fianchi di una collinetta sul culmine della quale si erge un fallo. Dal basso verso l’alto, si trova, in continuità col fallo, una vulva e sopra di essa una nicchia a doppia profondità con base orizzontale e volta a tutto tondo. I rami fruttiferi dell’albero, cinque su ogni lato, terminano al di sopra della nicchia. Sul lato sinistro di chi guarda, in basso sulla stessa parete rocciosa, si trova la figura stilizzata di un orante. La raffigurazione fin qui descritta pare appartenere ad un’unica epoca ed essere eseguita dalla stessa mano. In alto, separata, ma facente parte di questa composizione, si trova, al centro della superficie in oggetto, una testa circolare rudimentale mostruosa, avente occhi e naso incavati e bocca con espressione triste. Dalla testa si leva una croce, forse incisa in epoca posteriore. Sui due lati della testa sono incise due figure antropomorfe, a destra una figura elementare, con testa, torso e gambe e sinistra la stessa con pancia prominente. Potrebbe trattarsi di una figura femminile rappresentata prima e dopo la fecondazione. Sul culmine del sasso, in corrispondenza con la croce, si trova una cavità naturale poi aggiustata a formare un piccolo bacino della capacità di circa 200 cl. Nel terreno circostante si nota la presenza, sia pure sporadica, di frammenti di laterizi romani e di recipienti di terracotta rossa. La roccia è situata sul dorso di un contrafforte della collina sovrastante circa 70m l’ex casa colonica del podere Docciolina, che si trova a qualche centinaio di metri a sud del Santuario della Madonna delle Grazie per chi proviene da Stia. La strada che da Stia raggiunge il santuario transitava un tempo di fronte alla stessa casa colonica, mentre oggi transita alcune decine metri più in basso. L’antica strada, oggi non più percorribile nel tratto fra la casa e il santuario, risale forse al XV-XVI secolo, epoca in cui fu edificato lo stesso santuario. La data di costruzione del muro a retta che sostiene la strada stessa e del muro di terrazzamento che sostiene il terreno al di sopra di essa, è abbastanza facilmente arguibile. Lungo la strada, ad intervalli regolari, si trovavano dei "monti domini", oggi rimossi e giacenti qua e là, che un tempo portavano croci di legno. Al piano terra della casa, al livello della strada, si trovano due stanze oggi adibite ad uso di cantina e magazzino, entro quella di destra, sulla parete dalla parte del pendio collinare, vi è una profonda nicchia, dalla quale sgorga dell’acqua che forma una concrezione calcarea biancastra. Osservando il piano terra delle suddette stanze si nota che in origine la nicchia con la sorgente si trovava al centro di un ambiente dal pavimento ben lastricato, oggi diviso fra i due vani, contenente al centro una vasca quadrangolare nella quale probabilmente si riversava, mediante un canale ben visibile, l’acqua della fonte. Il proprietario riferisce che alcuni anziani, ex contadini del circondario, asseriscono che la roccia col manufatto era un tempo nota col nome di "Sasso del Règio" e che rappresenta “un santo eremita” o “un frate”, mentre la fonte all’interno della casa era ritenuta miracolosa essendo "frequentata soprattutto da donne" sino ad epoca recente "che con l’acqua si medicavano gli occhi". Il luogo era anche meta di una processione religiosa, che aveva luogo durante le “erogazioni”, proveniente dal vicino Santuario della Madonna delle Grazie. La tipologia di questo manufatto, se pure unico nel suo genere, lo farebbe ascrivere ad un contesto non cristiano e lo identificherebbe come “apparato liturgico” per officiare un rito legato al culto della fecondità. E’ altresì possibile che la frequentazione ed il culto si siano protratti fino all’era moderna e che perciò il manufatto si è conservato. Vi sono chiari indizi che testimoniano il protrarsi della frequentazione del Sasso fino a circa trenta anni fa da parte delle popolazione locale, che in certe occasioni qui si riuniva per officiare delle “messe nere”, come riferiscono oggi diversi testimoni oculari. Non esistono, a nostro parere e neanche a parere di vari esperti di arte rupestre convocati sul posto, raffigurazioni analoghe a quella del “Sasso del Regio” altrove. Tuttavia, sempre in Toscana, si trova a Massa Marittima l’affresco delle “Fonti dell’Abbondanza”. E’ questa un’opera pittorica “colta”, cioè non ascrivibile all’arte popolare, risalente al XIII secolo ma che esplicitamente fa riferimento agli stessi elementi simbolici per alludere al concetto di fertilità : albero fruttifero, acqua, attributi sessuali. Il contesto archeologico del Sasso del Regio è ricco e complesso e da quindi adito a varie e anche contrastanti interpretazioni. Sul fianco sud occidentale del Monte Falterona (1658m), ossia sul costone che precipita verso l’Arno a sud e ad ovest del Poggio Castellare (977m), si trovano numerose rovine di abitazioni di epoca tardo romana e barbarica, sottoposte ad indagine archeologica ormai da un decennio. Gli scavi di 5-6 delle numerosissime abitazioni, hanno rivelato edifici monolocali con fondazioni di pietrame, elevati in terra battuta e copertura a tegole ed embrici ad incastro. Le case erano con tutta probabilità abitate da pastori che coltivavano anche qualche varietà di cereali. A fianco di ognuna delle costruzioni, disposte caoticamente e distanti una decina di metri l’una dall’altra, vi era una capanna di frasche e legname. I reperti mobili rinvenuti dagli archeologi consistono in ceramiche di impasto, ‘dolia’ ed anfore, attrezzi agricoli analoghi a quelli ancora in uso alcuni anni or sono nella stessa zona e monete datate dal III secolo d.C. inoltrato al VI. La toponomastica della zona conserva un idronimo greco nel torrente adiacente al monumento (fosso della Basèlica) e un toponimo derivante dalla stessa radice (Basèrca) si trova poco oltre, nella valle del torrente Staggia. (G.A.C. (ed) –1990) Sulla sommità del Poggio Castellare, una prominenza del costone del Falterona che scende sino al castello guidigno di Porciano, vi sono tracce di costruzioni non ancora indagate al momento della stesura di questo articolo. Il monumento in questione ed il suo contesto geografico, attendono un accurata indagine archeologica. Nel frattempo un sollecito intervento conservativo e di tutela si rende assolutamente indispensabile soprattutto per frenare il rapido degrado già in atto. Paganesimo, magia, superstizione Non vi è motivo di ritenere un falso l’opera di Charles Godfrey Leland che testimonia la sopravivenza del paganesimo etrusco-romano nell’Appennino tosco-romagnolo fino alla fine del XIX secolo (Leland C.G., 1898). E’ quindi opportuno esaminare il soggetto in rapporto a ciò che oggi riscontriamo nella stessa zona ed in particolare in relazione al ritrovamento di cui sopra. Il Leland (1824-1903), storico delle religioni e Presidente della Gypsy-Lore Society di Londra, recuperò, sul finire dell’800, nell’Appennino a cavallo fra Romagna e Toscana, uno straordinario retaggio di elementi del paganesimo etrusco-romano, inspiegabilmente sopravvissuto nella tradizione popolare di quella zona. Il fatto è straordinario, non si tratta infatti di regioni remote e marginali della nostra penisola, bensì del cuore della campagna italiana più evoluta e ricca. E’ evidente, come appare attraverso il rigoroso ed ineccepibile lavoro del Leland, che nella Romagna toscana e nelle aree limitrofe delle province di Firenze e Arezzo, la “vecchia religione” era sopravvissuta intatta sino ai giorni nostri, a fianco di quella cristiana, relegata de facto in secondo piano e a lato delle superstizioni notoriamente presenti nella cultura popolare. Queste credenze e pratiche segrete registrate quando erano ancora vive e diffuse e se pur taciute, note a molti, testimoniano la sopravvivenza, nel centro più civile dell’Italia cristiana, non solo di una forte fede in antiche divinità, spiriti, elfi, streghe, incantesimi, sortilegi, profezie, pratiche mediche ‘alternative’, amuleti, ma addirittura del paganesimo classico. E’, quello miracolosamente tramandatoci dal Leland, un mondo spirituale parallelo, celato o negato da benpensanti, che ben lo conoscevano e dal quale traevano forse motivo d’imbarazzo. Una cosa è, infatti, accettare l’esistenza di stregonerie e superstizioni, peraltro condannate anche in epoca romana, ben altra cosa è venire a patti con la sopravvivenza del paganesimo tout court. L’autore descrive puntualmente, documentandola con metodo rigorosamente scientifico, questa civiltà territoriale che sarebbe altrimenti rimasta ignota, come l’esistenza di libri etruschi, senza lasciar traccia, fornendo una mole di informazioni essenziali per una sua accurata verifica. E’ interessante notare che il confine naturale fra Romagna e Toscana, ossia il crinale appenninico, che è stato confine politico soltanto fra il VI e l’VIII secolo d. C., costituisce uno dei più drastici confini linguistici d’Europa. La catena appenninica che divide le due regioni non costituisce un baluardo naturale tale da giustificare la cesura linguistica che invece vi si osserva. Né le Alpi, né i Pirenei e nemmeno il Caucaso o il Pamir, hanno confini linguistici lungo i loro spartiacque. E’ solo in epoca moderna che questi sono venuti sempre più a coincidere con gli spartiacque laddove essi sono divenuti confini politici invalicabili. Come spiegare il fenomeno tosco-romagnolo? Il dialetto romagnolo appartiene all’area linguistica franco-provenzale ed ha il suo confine meridionale sul versante adriatico con il fiume Cesano, in provincia di Pesaro. Quest’area linguistica, come tutte le altre dell’Italia attuale, è residua di una distribuzione precedente l’unificazione romana della penisola, anche se è improbabile che questa coincida con esattezza con quella di duemila anni fa. Il dialetto romagnolo e i vernacoli dell’area limitrofa della Toscana, sono incompatibili ed incomprensibili l’uno all’altro. I vernacoli del versante toscano hanno un preciso e netto confine solo lungo il crinale appenninico fra Pistoia e Cagli, essi sfumano, infatti, gradualmente nel ligure-parmense, nell’umbro o nel laziale altrove. Il marcato confine linguistico fra Toscana e Romagna coincide col confine politico militare fra l’Italia Longobarda e quella Bizantina, vale a dire fra la Tuscia e l’Esarcato di Ravenna, solo fra il VI e l’VIII secolo; né prima, né dopo questa linea geografica costituì un confine politico rilevante. Sia in epoca etrusco-romana sia in epoca medievale, la gente poteva oltrepassare questo crinale in tutta l’area sopra indicata, senza remore di sorta. Resta da spiegare perché un simile divario linguistico non si riscontri invece su confini politici presidiati per secoli da eserciti contrapposti. Una spiegazione potrebbe trovarsi nel fenomeno della transumanza, così poco studiato nei suoi effetti linguistici. Tutti i pastori della montagna romagnola, che dal Pistoiese al Montefeltro si recavano in Maremma e parlavano il toscano fino all’epoca in cui chi scrive vi iniziò le proprie ricerche (1964-67). Tutta questa area montana del versante adriatico, appartenuta politicamente a domini comitali a cavallo dell’Appennino, quindi ai comuni di Pistoia, Firenze ed Arezzo fino da quando esistono documenti, era bilingue. Il toscano era parlato dai pastori delle campagne e il romagnolo dagli abitanti dei borghi e delle cittadine. Con l’andare del tempo, e con l’evoluzione economica che ha portato ad estendere l’area della coltivazione del grano sempre più in alto, causando il restringimento o la scomparsa dei pascoli, il romagnolo è risalito fino allo spartiacque. Tuttavia rimane da risolvere il dilemma che tradizioni pagane, etrusche e romane – e non semplici superstizioni e stregonerie - siano sopravvissute in maniera così evidente, non solo e non tanto in Etruria propria, ossia sul versante toscano, ma su quello romagnolo, che oltre ad essere area linguistica “gallica”, ha subito traumatici sovvertimenti genetici e culturali a seguito delle invasioni barbariche e di consistenti immigrazioni levantine. Mi pare di poter ritenere che queste tradizioni sia esistite soprattutto nell’ambito culturale della transumanza e quindi nell’ambito culturale e linguistico toscano, intatto all’epoca del Leland e oggi stravolto. Sul versante toscano e in particolar modo in Casentino, la stragrande maggioranza dei toponimi appare rimasta inalterata dal 1000-1200 a.C. fino ad oggi. Si badi bene, ciò denota una continuità culturale, non genetica. La sostituzione genetica accertata nel Casentino come altrove a causa dello spopolamento dovuto in primo luogo alle Guerre Gotiche, poi ad epidemie e quindi da forti immigrazioni, non ebbe luogo, evidentemente, in modo traumatico, ma graduale. La sostituzione genetica deve essersi compiuta nell’arco di alcuni secoli, consentendo la trasmissione dei toponimi e di altri tratti culturali dagli indigeni agli immigrati. Tale fenomeno è in atto oggi con l’immigrazione di africani, albanesi, rumeni, polacchi ecc. i cui figli, anche se nati nei paesi di origine parlano perfettamente il vernacolo locale. Una così densa concentrazione di toponimi preistorici come si riscontra nel Casentino non ha eguale in altre parti d’Europa. Ciò mette ancor più in risalto la totale assenza di tali toponimi sul versante romagnolo. Qui solo Cesena e Ravenna hanno toponimi preromani certi. Se tutto ciò fosse vero sarebbe risolto il mistero di come tracce di paganesimo etrusco-romano si siano potute conservare fino alla fine del XIX secolo proprio in Romagna, dove già nel VI secolo la popolazione latina era ridotta al 50%, col 40% di Levantini (greci siriaci, armeni, ebrei, egiziani, ecc.) e il 10% di Goti (A. Pertusi, 1963). Nel Casentino e in Mugello, dove la sostituzione genetica si realizzò con modalità diverse e culturalmente non traumatiche. Comunque sia, questa è solo una delle possibili spiegazioni di questo fenomeno antropologico di straordinaria singolarità che caratterizza l’area della ricerca del Leland. Dall’opera stessa del Leland traspare, a vari livelli d’interpretazione, l’autenticità assoluta del lavoro. Nel testo dell’antropologo americano, analogamente a quanto accade in altri anche moderni che trattano la stessa tematica, si trovano costrutti quali “paganesimo”, “vecchia religione”, “stregoneria”, “magia” e simili, che rischiano di causare, nella mente del lettore non specialista, una gran confusione fra concetti e significati spesso radicalmente diversi. Occorre chiarire che anche la religione pagana condannava la “stregoneria” –vi sono documenti relativi a streghe date al rogo in autori classici- ed è quindi erroneo riferirsi alla stregoneria come “vecchia religione”, intendendo con ciò il “paganesimo” classico. (R. Lane Fox, 1986). La stregoneria era probabilmente ritenuta “vecchia religione” persino dai Romani e dai Greci che la sanzionavano con leggi severe. Un conto è quindi la credenza in divinità e spiriti del pantheon pagano classico, ben altra cosa sono invece la magia e la stregoneria, che derivano da tradizioni preistoriche antichissime o, come vedremo nel caso specifico del Sasso del Regio, alla presenza di popolazioni indoeuropee pagane. Superstizione, in latino ‘superstitio-onis’, deriva da ‘superstare’ o “star sopra”; il lemma indicava originariamente una cosa che è ‘al di sopra della realtà terrena’, piuttosto che un’aberrazione della religione come nel suo significato moderno. La superstizione è al di sopra ed è quindi inaccessibile; l’etimologia stessa del termine ne spiega quindi il concetto. La pratica della magia, invece, si perde nella notte del Paleolitico ed è basata su due principi essenziali. Il primo principio consiste nel credere che una cosa ne produca una eguale, ossia, che l’effetto somigli alla sua causa; il secondo nel credere che due cose che sono state legate, continuino ad influenzarsi a vicenda dopo essere state separate. Il primo principio è definito “Legge della Similarità”, mentre il secondo “Legge del Contatto o Contagio”. Secondo la Legge della Similarità, il ‘mago’ assume di poter produrre qualsiasi effetto desiderato, imitandolo, mentre secondo la Legge del Contatto egli ritiene che una azione prodotta su di un oggetto avrà ripercussioni sulla persona alla quale l’oggetto appartiene o che con tale oggetto ha avuto contatto.( J. G. Frazer, III, 1, 1922) Il Lavoro del Leland tratta queste materie, senza tuttavia fare le dovute distinzioni che invece il lettore moderno dovrà fare, per non cadere nell’errore di far di tutta l’erba un fascio. Il complesso dei graffiti del “Sasso del Regio” la cui esecuzione inizia con tutta probabilità nella preistoria, esprime a nostro avviso ambedue le tradizioni, quella pagana di ambito greco-romano e quella della stregoneria di ambito indoeuropeo. Tuttavia, l’impostazione iconografica così come appare oggi, mostra analogie con la Kabbalah in versione cristiana, o ermetica, facendo sospettare il sovrapporsi di un intervento, forse anche recente, da parte di intellettuali appartenenti alla tradizione cabalistica cristiana del circolo mediceo fiorentino oppure di illuministi o rosicruciani dell’800 o del ‘900.(A.C. Ambesi,1990) Modalità dell’affermazione del Cristianesimo Come scrive J.A.F.Thomson, (1998) “Mentre i luoghi sacri del paganesimo diventavano tabernacoli di santi e martiri, le autorità ecclesiastiche esercitavano il controllo su di essi e sui riti che vi si svolgevano”. Sulpicio Severo riporta che perfino San Martino di Tours era scettico sul fatto che sotto i templi cristiani dedicati ai martiri si trovassero davvero le loro ossa; quando scoprì che sotto un altare era sepolto un brigante, subito fece distruggere l’altare. Il paganesimo fu bandito da Teodosio I (379-395) che dichiarò la religione cristiana unica religione dell’Impero. Tuttavia è giusto chiederci fino a che punto il popolo minuto -delle città come delle campagne- fosse realmente cristianizzato nel IV secolo. E’ chiaro che nella maggior parte dei casi la gente accettava i riti e le formule della Chiesa come supplementi delle loro reali credenze, primo perché era obbligata ad accettare il cristianesimo per legge, secondo perché la sua cultura era politeistica (J.A.F.Thomson, 1998). I primi cristiani furono infatti ebrei e appartenenti ad altre religioni monoteiste, come il buddismo e il mazdaismo. Nelle città, in virtù del fatto che la stragrande maggioranza della popolazione era di origini levantine, il Cristianesimo attecchì presto e senza problemi (J. M. H. Smith, 2005). I Goti che invasero l’Italia provenivano dai Balcani, i loro leader erano di lingua greca e di fede Ariana, ma è naturale che fra le loro masse multi-etniche predominasse il paganesimo di radice indoeuropea. Il Concilio di Nicea (324) condannò l’arianesimo e stabilì che il Padre e il Figlio avevano la stessa, e unica, sostanza; il Concilio di Calcedonia (451) affermò invece la dottrina della doppia natura – umana e divina - in Cristo. Tuttavia rimasero radicate altre credenze come, appunto, quella degli Ariani che riteneva il Figlio di sostanza simile ma non identica a quella Padre. Nel regno barbarico che emerse in Italia dalle rovine dell’Impero, convissero le due credenze, quella ariana e quella ‘ortodossa’ del Concilio di Nicea. Il primo sovrano d’Europa, il franco Clodoveo, abbracciò l’ortodossia, mentre la maggior parte dei sovrani germanici rimaneva ariana; tuttavia le due versioni del Cristianesimo si tollerarono reciprocamente. Gli Ostrogoti ed i Longobardi erano di fede ariana, Teodorico scoraggiò le conversioni proprio per mantenere chiara la divisione ‘etnica’ fra Romani e Germani. Il Cristianesimo ortodosso era infatti diffuso solo fra i Levantini che in prevalenza –con l’eccezione del Ravennate dove immigrati ebrei convertiti al cristianesimo divennero anche contadini- risiedevano nelle città (A. Guillou, XVIII Convegno di Studi Romagnoli, Cattolica, 1967). Prima di aderire all’Arianesimo, i popoli germano-iranici (Sarmati e Germani orientali) erano in prevalenza adoratori di Ahura Mazda e fu solo nel III secolo che essi decisero di abbandonare Mithra e di abbracciare il cristianesimo ariano, che dal mithraismo ereditò la liturgia e spesso anche i templi del culto, evento simbolizzato nell’arte dalla comparsa dei Magi – i sacerdoti di Mitra- nell’iconografia cristiana. I mitrei diventano le prime chiese cristiane, ovvero le ‘cripte’ sulle quali sorgeranno le chiese posteriori. Costantino (IV sec.) si rivolge spesso agli aruspici etruschi per interpretare i segni premonitori, come avevano sempre fatto i cesari. Nelle sue dichiarazioni pubbliche egli non fa mai riferimento ad alcuna divinità soprattutto allo scopo di non offendere i monoteisti che a Roma erano di certo la maggioranza. Impiegando gli aruspici - è evidente- Costantino non offendeva alcuno. Il riferimento agli aruspici nelle cronache costantiniane ci dimostra non solo la loro attività nei secoli IV e V, ma induce a ritenere che, nelle regioni più remote e appartate d’Italia, come ad esempio in Casentino, la loro sopravvivenza si sia protratta ancor più a lungo. Ciò che fa supporre che i numerosissimi toponimi etruschi e pre-etruschi del Casentino siano stati trasmessi ai Longobardi da una popolazione rurale di lingua etrusca, sono i fatti a cui ci troviamo di fronte. Uno di questi fatti è l’apparente mancanza di una fase latina nell’evoluzione del vernacolo casentinese, rilevata da numerosi linguisti, l’altro è il numero stesso dei toponimi pre-latini in Casentino, numerosissimi nonostante essi siano sicuramente dimezzati dall’epoca longobarda. Mentre i rarissimi toponimi etruschi in altre province toscane possono essere stati tramandati dalla tradizione latina fino all’epoca in cui si stipulano i primi atti notarili, è assai improbabile che ciò sia accaduto nel Casentino dove praticamente ogni toponimo di insediamento antico era -e spesso è tuttora- etrusco nella stragrande maggioranza dei casi. Nel Casentino devono essere stati anzitutto le istituzioni monastiche a diffondere il cristianesimo. Come accadeva in altre parti d’Italia e dell’Impero, monaci e asceti cristiani si offrivano come paradigmi (W. H. C. Frend, 1967). Vi sono buone ragioni per giustificare l’istituzione, fra il X e il XII secolo, di case comuni come quelle di Selvamonda, Tega, Santa Trinita in Alpe, Camaldoli, Capo d’Arno, Cetica, ecc., nei più remoti recessi della valle, tutte queste case comuni nascono presso fonti sacre, o “benedette”. Qualche secolo più tardi San Francesco viene chiamato ad estirpare il “male” dall’orrido nascondiglio della dea Laverna, come vedremo più avanti, mentre più tardi ancora, fra XIV e XV secolo, quattro teofanie mariane tenteranno di estirpare il male da altrettanti luoghi di culto pagano frequentati dalla popolazione casentinese. Come scrive il Thomson, il successo di queste misure adottate dalla Chiesa per sradicare credenze e pratiche spesso millenarie è assai dubbio. Nel paganesimo tardo indoeuropeo molte pratiche sono legate all’avvicendarsi delle stagioni e soprattutto centrate attorno a riti concernenti la fertilità e la buona riuscita dei raccolti (Thomson. 1998, 1-10). I concili delle Gallie e dell’Iberia del VI e VII secolo denunciano il persistere di culti antichi attorno ad alberi e a fonti sacre. Nel 693 il re visigoto, Egica ordina ai vescovi di disciplinare i contadini che fanno offerte sacrificali agli idoli e di consegnare tali offerte alla chiesa più vicina. Vengono inoltre prese severe misure contro coloro che adorano sassi, fonti ed alberi (Thomson, 1998, 1-11). Ancora più tardi i codici di Liutprando (727) e di Carlomagno, contemplano pene severe per coloro che adorano fonti ed alberi (Thomson, 1998, 1-13). Da Bede apprendiamo che Gregorio Magno consiglia Sant’Agostino di Canterbury di convertire i templi adattandoli al culto cristiano. Fu il suo successore Bonifacio IV a trasformare il Pantheon di Roma in chiesa cristiana. All’inizio del X secolo, come riportano fonti agiografiche, i Baschi erano ancora pagani. (Thomson, 1998, 1-17) Il metodo adottato dagli evangelizzatori e dai missionari del primo medioevo era quello della conversione dall’alto al basso nella scala sociale e non viceversa. I predicatori del medioevo ottenevano anzitutto il consenso dei governanti, dei signori locali, convertendo anzitutto loro, poi seguivano battesimi di massa coinvolgenti l’intera popolazione di una “curtis”. San Colombano di Bobbio, accingendosi nel 590, a diffondere il monachesimo irlandese nell’Europa franca non si appellò alle autorità ecclesiastiche della Gallia, bensì ai re franchi. Nel cristianesimo primitivo il battesimo di un individuo segnava invece la conclusione di un lungo periodo di istruzione. Non deve sorprenderci se le conversioni del medioevo non riuscirono a sradicare le tradizioni pagane, perciò la Chiesa dovette consentirne il sincretismo oppure sradicare il paganesimo con la forza. Poiché il mondo indoeuropeo era politeista, il problema dell’evangelizzatore non era quello di far accogliere il Cristo -dal momento che un politeista accetta con facilità un nuovo dio- ma quello di far accettare l’idea di un solo dio “che reclamava il monopolio della verità” (Thomson, 1998) e che tacciava ogni altra divinità, fin ora adorata e venerata, insignificante o demoniaca. Il re sassone Redwald dell’East Anglia eresse un altare a Cristo nel tempio dove erano venerati altri dei (Thomson, 1998, 1-18). Un libretto di penitenze del VII secolo dell’Arcivescovo Teodoro di Canterbury, proibisce l’assunzione di carni di animali “sacrificati ai demoni” e di “fare incantesimi con l’aiuto degli àuguri” (Thomson, 1998, 1-23). Dal tardo VIII secolo in poi, orde asiatiche pagane si riversarono di nuovo sull’Europa, fra queste vi erano gli Eruli di Scandinavia, che verranno chiamati “Vichinghi”, gli Slavi, i Bulgari, gli Ungari, ma tutti questi popoli si convertirono abbastanza rapidamente. Verso l’inizio del XII secolo il paganesimo nell’Europa occidentale era ormai relegato underground. Ad est, costretta com’era fra la Polonia cattolica e la Russia bizantina, la Lituania rimaneva saldamente attaccata al paganesimo che andò underground solo nel XV secolo inoltrato. Nel resto d’Europa, solo un gruppo minoritario assai disperso, quello degli Ebrei, rimaneva fuori dalla Chiesa. Nonostante l’accusa ufficiale di essere responsabili della morte di Cristo, gli Ebrei sopravvivevano ma solo laddove essi promettevano di non cercare di far proseliti o di tenere schiavi cristiani. La maggior parte di essi gettarono la spugna e si convertirono. L’antisemitismo era, allora come oggi, istigato dall’ordine costituito, piuttosto che dal sentimento popolare e perciò molti ebrei non avevano la convinzione, l’energia o le risorse per una perenne lotta senza quartiere. L’albero, il sasso, la fonte, l’eremita e il monaco Alla Docciolina c’è l’albero, c’è il sasso e c’è la fonte. Naturalmente il sasso e la fonte sono lì da secoli mentre l’albero ha si e no 40 anni, tuttavia è assai probabile che in passato un venerando albero abbia adombrato sia il sasso sia il pellegrino che vi giungeva per devozione. Il Sasso viene da alcuni definito come “immagine di un eremita”. Ma perché un eremita o la sua immagine dovrebbero diventare oggetto di culto e venerazione? La spiegazione sta nel fatto che la devozione mutò la sua natura quando la costante minaccia di persecuzione diminuì e quindi scomparve. L’ascesi sostituì il martirio come il più alto ideale a cui il cristiano potesse aspirare. All’inizio del III secolo, Clemente di Alessandria, è il primo fra i Padri della Chiesa a porre sullo stesso piano il martire e l’asceta. Durante le due generazioni fra il 260 e il 324 l’ascesi si diffonde come modo prevalente di esprimere la pietà cristiana. Per il Casentino occorre ricordare Illaro, nato in questa valle verso il 476, che lasciò memoria di sé a Sant’Ellero di Reggello, castello guidigno. L’ascesi è di origine induista e fino al XVI secolo inoltrato gli Indù sono ritenuti cristiani, come si apprende persino dagli scritti di Vasco da Gama e di altri viaggiatori portoghesi dell’epoca. Dal monaco palestinese Pseudo Palladio (343-430) abbiamo resoconti di prima mano concernenti i contatti fra il Levante e il Gange. Su tutta questa immensa regione si parlava l’aramaico dal III secolo a.C. mentre il greco vi era conosciuto fino dal IV secolo. Sull’esempio buddista e induista, incominciano a formarsi comunità religiose di cristiani Levantini che si ritirano dal mondo, concentrando la loro attenzione su questioni divine, liberi dalle distrazioni della vita quotidiana. Nel terzo secolo già esistevano fra i cristiani “famiglie” o congregazioni di asceti formate da uomini o donne celibi e nubili. Panfilo di Cesarea presiede su una confraternita di celibi dediti all’apprendimento delle cose sacre. Queste “famiglie” di celibi erano numerose in tutta l’Anatolia. Nel Simposio di Metodio, modellato sull’opera di Platone, undici donne si uniscono in conversazioni che esaltano la castità, ma che hanno il vero intento di fornire una “regola” o manuale di dottrina per comunità di asceti di sesso femminile. La comunità di Metodio gode del patronato di una ricca fondatrice e si trova sulle sue terre. Questo monachesimo rappresenta la diretta continuità di quello ebraico dei cosiddetti “Therapeutae” del I secolo i cui aderenti erano considerati cristiani dai cristiani stessi. Il monachesimo più antico ha infatti le sue radici in quello ebraico la cui tradizione, conservatasi nei secoli in Mesopotamia, fu reintrodotta in Siria in Palestina e in Egitto da missionari manichei (McNeill, W.H. 1963). Sant’Agostino era appunto uno di questi manichei, la sua “Regola” porta con se le tracce evidenti di una lontana provenienza: il monachesimo buddista. (S. Agostino, “La regola”) Dal IV secolo d.C. in poi ha luogo una consistente immigrazione di Levantini ebrei, siriaci, armeni, egizi, greci e iranici in particolar modo verso Ravenna e la Romagna. Molti ebrei diventano infatti contadini dell’esarcato e sono antenati dei romagnoli di oggi (A. Pertusi, 1963). E’ probabile che alla Docciolina sia anche vissuto, in antica epoca cristiana, una venerabile asceta forse proveniente dalla Romagna.
Laverna----------------------------------------------------------------- "Pulchra Laverna, da mihi fallere, da iusto sanctoque videri, noctem peccatis et fraudibus obice nubem". ( Orazio, “Lettere” XVI – 60) "No est in toto sanctior orbe mons" (Non vi è monte più santo al mondo) Scritto su una lapide presso l'ingresso a la Verna. Non esisto ad associare La Verna del Casentino alla divinità romano-italica Laverna, risultando ciò palese sia dalla derivazione del nome, sia dal fatto che le notizie tramandate dalla tradizione popolare concernenti la persistenza del culto di Laverna, provengono dall'Appennino tosco-romagnolo e da Firenze e provincia, dove operavano, fino ai primi decenni del XX secolo, “streghe e stregoni” romagnoli. La montagna della Verna è un enorme monolite di roccia sedimentaria miocenica 'alloctona' (nel caso specifico pare proveniente dall'Appennino ligure) che poggia su arenarie e crete di epoca posteriore, costituendo un punto di riferimento assai ben visibile da grande distanza sia dal Casentino sia dalla Valtiberina. Vista da Bibbiena o da Poppi la forma della montagna è, in effetti, vagamente riconducibile a quella di una figura umana sdraiata, priva di testa, della quale La Penna è la spalla, e su cui il monastero si erge all'altezza del pube. E' del tutto probabile che così abbiano interpretato la montagna le popolazioni antiche del Casentino, poiché rientrava nel loro modo di percepire il leggere lineamenti antropomorfi in formazioni naturali per ascriverle poi a manifestazioni di divinità ctonie (terrestri). Laverna era infatti, nel Pantheon latino italico una variante dell' Ecate omerica. Chiusi della Verna era con tutta probabilità una postazione doganale in epoca romana, quando numerose greggi provenienti dal Montefeltro e dall'alta Vatiberina vi transitavano provenienti da Compito ('trivio') dove da generazioni si rinvengono tombe a fossa con suppellettili di epoca etrusco-romana. E' plausibile che, come riportato dalla tradizione, negli anfratti della Verna si nascondessero ladri e malfattori che prosperavano grazie al traffico che si svolgeva lì attorno. Nella primavera del 1213 Francesco e Frate Leone vagavano per il Montefeltro predicando e benedicendo. In occasione di una festa locale, il Conte di Chiusi, Orlando Catani, volle fare al santo un'offerta consona alla sua ricerca di solitudine. Si riporta che il conte si sia rivolto a Francesco in questi termini: "Io ho in Toscana uno monte divotissimo il quale si chiama monte della Vernia, lo quale è molto solitario e salvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza, in luogo rimosso dalla gente, o a chi desidera fare vita solitaria. S'egli ti piacesse, volentieri Io ti donerei a te e a' tuoi compagni per salute dell'anima mia." L'offerta piacque a Francesco, che inviò due suoi compagni a vedere questo monte. Avuta conferma di quanto il conte diceva, accettò l'offerta con grande gioia. La Verna fu donata a Francesco affinché egli sconfiggesse il "male" che vi si annidava e liberasse il luogo dai pericoli, dalla paura, dal peccato e dal maligno. La zona era tanto temuta che …"il conte stesso volle accompagnare insieme con 50 soldati per timore dei ladri e delle fiere che infestavano il bosco"…, come recitava una iscrizione affissa presso la Cappella delle Stimmate. Dice il Beni che nel fianco della parete rocciosa, verso la valle, "si celano all'occhio selvaggi dirupi, grotte tenebrose, caverne inaccessibili, voragini profondissime". Lo stesso Beni scriveva che dal precipizio si entrava "in una tortuosa galleria della quale a suo tempo nessuno conosceva l'estensione, la direzione o la profondità. Alcuni frati tentarono di esplorare questo luogo, ma arrivati ad un certo punto stimarono cosa prudente tornarsene indietro".(C. Beni, 1881) Non a caso Francesco scelse il più profondo anfratto della montagna, il Sasso Spicco –che secondo la configurazione antropomorfa della roccia corrisponde alla vagina della dea- come luogo di preghiera e meditazione, per sgominare il maligno dall'interno. All'interno del Sasso Spicco si celavano probabilmente quelle praticanti che operavano aborti e sostituzioni di neonati, di cui parla la tradizione ottocentesca raccolta meticolosamente da G. C. Leland (1898). Se certi accostamenti anatomici offendessero la sensibilità di alcuni fedeli, basterà che questi riflettano sui tempi a cui facciamo riferimento e al fatto, comune in tutto il mondo cristiano, che laddove esisteva un luogo sacro pagano di grande potere, il culto della Madonna vi si radicò con più determinazione e vigore che altrove, proprio per sconfiggere il maligno. Se la Verna è oggi un luogo di pace, d'amore e di tranquillità, dedicato a Santa Maria degli Angeli, è proprio in virtù dell'opera di San Francesco. La Kabbalah Ermetica e il mistero svelato…almeno in parte La similitudine formale fra il Sasso del Regio e l’Albero della Vita della Kabbalah appare troppo evidente per essere relegata al livello di coincidenza. La Kabbalah rappresenta un aspetto del misticismo giudaico. Essa comprende un vasto insieme di speculazioni sulla natura del divino, sulla creazione, sul destino dell’anima e sul ruolo degli esseri umani. La Kabbalah è un insieme di pratiche mistiche meditative devozionali e magiche, insegnate a pochi eletti ed è per questo che la Kabbalah è considerata un aspetto esoterico del giudaismo. Sotto alcuni aspetti, la Kabbalah è stata anche praticata o studiata, da centinaia di anni, dai cristiani. Il termine “Kabbalah” significa “ricevere, accettare” ed è sinonimo di “tradizione”, vale a dire “ricevere o accettare la tradizione”. Il termine può essere scritto o pronunciato in numerosi modi: Qabalah, Cabala, Qaballah, Qabala, ciò è dovuto a diverse interpretazioni e relative trascrizioni delle lettere ebraiche in lettere romane. Il modo corretto di scrivere la parola è Kabbalah. Secondo la tradizione giudaica la Torah (la “Legge” ovvero i primi 5 libri della Bibbia) esisteva prima della Creazione ed è un “manuale” che Dio impiega per operare, ad esempio, la creazione dell’uomo. Quando Mosè ottiene le tavole della legge da Dio, egli riceve anche la legge orale, quella non scritta, da tramandare di generazione in generazione. A volte questa tradizione orale è definita Kabbalah. Nasce così fra gli Israeliti una tradizione orale segreta che contiene una conoscenza, una interpretazione iniziatica della Torah, dei suoi significati reconditi e del divino potere in essa contenuto. Alla radice dalla Kabbalah c’è la credenza nella divinità della Torah a che studiando i testi secondo questa tradizione non scritta si sveli il segreto della creazione. La Kabbalah ha anche a che fare con la tradizione biblica della profezia. Il profeta, scelto da Dio, parla a nome di Dio. I Kabbalisti, insomma, credono di essere gli eredi dei profeti biblici. E’ solo fra il 100 e il 1000 d.C. si sviluppa una letteratura kabbalistica nella tradizione giudaica, non esiste evidenza della Kabbalah prima di allora. Tuttavia, in alcuni suoi aspetti ed in particolare quello “ermetico”,la Kabbalah esula dall’ambito della religione ebraica. Date le affinità formali circa i simboli raffigurati sul Sasso Regio e alcuni appartenenti alla “Kabblah Ermetica” o “Cristiana”, è bene esaminare in cosa questa consista. Da circa 500 anni, ebrei e non ebrei si sono dedicati alla Kabbalah Ermetica o Kabbalah Cristiana, come era chiamata agli inizi. Le origini di questa nuova tradizione sono da ricercarsi nell’Italia del Rinascimento e nell’ultima decade del XV secolo (per coincidenza, data di costruzione del santuario di Santa Maria delle Grazie). A quel tempo, a Firenze, Marsilio Ficino aveva istituito l’Accademia Platonica sotto il patronato mediceo e stava traducendo Platone. In questo ambito avvenne la scoperta di un corpus di manoscritti in greco su papiro, del I e II secolo d.C., noto come “Corpus Hermeticum” poiché attribuito a Hermes Trismegistus, il nome greco del dio della sapienza egizio, Thoth. A seguito di questa scoperta, Cosimo de’ Medici ordinò a Ficino (1460) di occuparsi di questo materiale e sospendere la traduzione di Platone. Si ritenne allora che questi manoscritti fossero un corpus di religione egizia e che Hermes fosse una sorta di Mosè. Essendo i testi imbevuti di filosofia neoplatonica ed essendo ritenuti assai più antichi di quanto in realtà fossero, si manifestò l’idea che la stessa filosofia platonica derivasse dalla filosofia religiosa degli Egizi. Questa idea ebbe una grande risonanza nel mondo intellettuale del Rinascimento. Allo stesso tempo giungevano in Italia ebrei spagnoli cacciati dalla Spagna nel 1492 ed essi portarono con se la Kabbalah, che fu ritenuta, appunto, la chiave del sapere inziatico della Bibbia. Due uomini si fanno avanti come interpreti di questa nuova visione filosofica, uno è Pico della Mirandola, che fa fare diverse traduzioni di testi kabbalistici rendendo nota la Kabbalah agli intellettuali suoi contemporanei; l’altro è Johannes Reuchlin, che imparando l’ebraico si immerge nella letteratura kabbalistica. Da questo amalgama di cristianesimo, ermetismo, neoplatonismo e umanesimo rinascimentale trae origine la “Kabbalah Ermetica”. Nei secoli questa forma di misticismo si è sviluppata i varie direzioni venendo ad arricchirsi di massoneria e di rosacrucianesimo, ma mantenendo nella sostanza il suo spirito originario. Questa forma di misticismo kabbalistico ermetico cristiano, non pretende di definire Dio o dettare in cosa uno uomo debba credere, ma ritiene che sia possibile ottenere un certo livello di conoscenza di Dio e che ciò possa avvenire applicando un metodo pratico. La Kabbalah ermetica del Rinascimento ha conservato fino ai nostri giorni alcuni elementi originari nell’ambito della scuola europea della magia nera, come sostiene R. Aryeh Kaplan, (1992). La linea di divisione fra la Kabbalah ebraica e quella ermetica sta nel fatto che la prima si occupa di teurgia e la seconda di taumaturgia. Per essere più semplici, mentre la prima partecipa nell’opera divina per migliorare la creazione, la seconda interferisce con la creazione a beneficio del praticante. La Kabbalah ermetica è legata a riti cerimoniali nell’ambito di numerose tradizioni teosofiche e soprattutto sataniche o di magia nera. Se pensiamo al fatto che alcuni abitanti di Stia hanno fatto riferimento alla pratica di “messe nere” presso il Sasso Regio, questo fatto gioca a favorire dell’ipotesi che si tratti davvero di una raffigurazione kabbalisica ermetica. Una domanda davvero interessante è quella di chi può aver creato questa immagine di Stia. Nota sul monachesimo e le sue origini Il monachesimo non lo inventano né Pacomio, né Sant’Antonio, ne altri Padri a del Deserto, poiché già esisteva da secoli nelle religioni zoroastriana, ebraica e induista, vale a dire in una unica ed inscindibile sfera culturale, politica e commerciale. Intanto l’elemento principale di unità di questa sfera culturale, politica e commerciale sono le lingue greca ed aramaica che consentivano a mercanti, studiosi, saggi, mistici e asceti, di viaggiare di capirsi dalla costa mediterranea fino al Gange e all’Oxo. Altri elementi unificanti erano l’ellenismo e l’esistenza di accademie greche in tutto questo territorio, quindi l’influenza politica partica e sassanide. Tuttavia, come osserva William H. McNeill (pp.381), l’importanza dell’influenza indiana sul monachesimo e su altri aspetti della pietà cristiana è stata esagerata da un lato e troppo sminuita dall’altro. Era comune agli inizi del 900 esagerare l’apporto indù al cristianesimo, d’altro canto, appariva chiaro come le comunità ascetiche ebraiche, come ad esempio quella di Qumran ed accenni biblici ad antichi profeti che abitavano nel deserto, avessero potuto offrire ai cristiani modelli importanti. Tuttavia nei precedenti ebraici non si riteneva che il fine della disciplina ascetica fosse la visione beatificante di Dio, come invece era il caso nell’induismo. Inoltre, gli effetti psicologici indotti dal digiuno e da altre privazioni fisiche non si affermavano come visioni dell’Immenso. Le interpretazioni indù di tale esperienze nel campo della teologia e della trascendenza, possono invece essere state di fondamentale importanza nella formazione culturale dei primi mistici cristiani. In sostanza, McNeill ritiene che il monachesimo cristiano debba assai più a quello indù e buddista che non a quello ebraico. Giovanni Caselli Gennaio 2006 Questo articolo è pubblicato nella rivista "Memorie Valdarnesi" 2006