domenica 4 dicembre 2011

Ho vergogna di questa ItaGlia

L'"unità d'Italia", l'Italietta ipocrita, piduista, mafiosa, criminale e divoratrice, l'ItaGlia, nacque proprio così (altroché "questione meridionale"!... la "questione", semmai, fu piemontese, sabaudocornuta, "padana"...). E anche nel suo caso: si diventa ciò che si è.





Senza verità, niente risorgimento



Maurizio Blondet 27 marzo 2010





Per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia, sta spendendo 800 milioni di euro di soldi nostri l’apposito Comitato celebrativo: presieduto dal venerabile presidente-emerito Carlo Azeglio Ciampi da Livorno, che probabilmente aggiungera questa sua grassa ‘consulenza’ ai 702 mila e passa euro annui che ci estrae dal portafoglio. Quando si diventa ricchi con la patria, è facile celebrarla. Noi, del tutto gratuitamente – grazie ad una recente rilettura di ‘L’altro risorgimento’ della storica Angela Pellicciari, Piemme, 2000 –, sentiamo doveroso contribuire un poco a quelle auguste memorie.

INTERVENTI UMANITARI – Quando Londra e Parigi (ossia Palmerston e Napoleone III) decisero di appoggiare i Savoia nella conquista dei pricipati italiani, i giornali europei si riempirono di resoconti raccapriccianti sul malgoverno dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie: quei popoli «gemevano» nella miseria, nell’arretratezza, sotto una feroce repressione reazionaria di regimi stupidi e feroci. Talché occorreva «un intervento internazionale» per mettere fine a governi «contrari agli interessi della popolazione». Come in Afghanistan un secolo dopo, occorreva liberare le donne dal chador.

La stampa massonica italiana riprese con delizia le truculente notizie dettate dall’estero. Il 19 marzo 1857 il Corriere Mercantile di Genova attestò che nelle carceri borboniche si usava «la cuffia del silenzio», un aggeggio di tortura applicato al volto dei carcerati per impedire loro di parlare. Inutile dire che questo oggetto era sconosciuto a Napoli. Invece – come raccontò Christophe Moreau, un esperto francese incaricato dal suo governo di studiare il sistema carcerario britannico – era in uso nelle prigioni inglesi: «... Uno strumento composto di varie bende di ferro che serrano la testa del colpevole, ed è terminato al disotto da una lingua di ferro ricurva che entra nella bocca fino al palato».

Si scrisse che il Vaticano condannava i colpevoli alla frusta. Effettivamente, c’erano circa cinque o sei frustati l’anno. In Gran Bretagna, il gatto a nove code era un sistema corrente di punizione applicato dai tribunali in 7-800 casi l’anno, e usato normalmente senza alcun processo contro i marinai delle navi da guerra.

Secondo i resoconti, nel Sud infuriavano le pene capitali senza controllo. In realtà, dopo la fallita «rivoluzione» del 1848, i tribunali napoletani comminarono ai rivoluzionari mazziniani e filo-francesi 42 condanne a morte. Re Ferdinando II le commutò tutte, non fu eseguita alcuna esecuzione.

Nel civile regno di Sardegna, modello dei giornali europei, il 26 marzo 1856, il deputato Brofferio della sinistra insorge contro l’eccessivo numero di esecuzioni capitali comminate da quando il governo piemontese è diventato «costituzionale e liberale»: 113 esecuzioni tra il 1851 e il 1855, mentre il governo assoluto precedente (1840-44) ne aveva eseguito solo 39. Il regno savoiardo costituzionale condannava a morte otto volte di più della Francia, lamentò Brofferio.

SERVI DI LONDRA – «Le nazioni (europee) riconoscevano all’Italia il diritto di esistere come nazione in quanto le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica (...)»: così il Bollettino del Grande Oriente Italiano nel 1865. Per compiacere il regime anglicano ed ottenerne l’appoggio Cavour soppresse gli ordini religiosi e confiscò i beni ecclesiastici in Piemonte (il Times inneggiò all’azione). La superpotenza dell’epoca – la regina Vittoria – forma una «coalition of the willing» nel 1854 per combattere lo Zar in Crimea, onde impedire alla Russia l’accesso al Bosforo: Cavour manda 15 mila soldati piemontesi in Crimea, onde ingraziarsi Vittoria. Moriranno 5 mila, un terzo degli effettivi, in quella guerra in cui il Piemonte non aveva alcun interesse. Per pagare questa guerra lontana, Cavour contrae un prestito con la finanza britannica, che il Regno d’Italia estinguerà soltanto nel 1902.

Cavour, scrive Angela Pellicciari, era del tutto consapevole che «l’Italia non si costruisce con l’appoggio della popolazione italiana, ma con il sostegno internazionale dei governi liberali, contrari alla fede (...) della grande maggioranza della popolazione».

IMMANE DEBITO PUBBLICO – Cavour ammette alla Camera subalpina il 1 luglio 1850: «So quant’altri che, continuando nella via che abbiamo seguito da due anni, noi andremo difilati al fallimento. E che continuando ad aumentare le gravezze, dopo pochissimi anni saremo nell’impossibilità di contrarre nuovi prestiti e di soddisfare gli antichi».

Debiti nuovi per pagare debiti vecchi, è qui che comincia l’Italia che conosciamo. Nel 34 anni che vanno dalla caduta di Napoleone al 1848, nonostante i danni dell’occupazione francese, il Regno di Sardegna accumulò 134 milioni di debiti. Nei solo 12 anni del governo Cavour, dal 1848 al 1860, il debito pubblico aumenta oltre un miliardo (Stato della Chiesa e Regno di Napoli hanno lievi avanzi di bilancio)(1). Ovviamente, i contribuenti piemontesi furono schiacciati dalla tassazione più esosa d’Italia. Il Piemonte aveva accumulato un miliardo di lire di debito, pari a 200 miliardi di euro odierni. La bancarotta di Stato è imminente, al punto che solo la guerra all’Austria (e la conquista dei principati italiani) può dare una speranza di uscirne. Lo ammette Pier Carlo Boggio, deputato cavourriano nel 1859:

«Ogni anno il bilancio del Piemonte si chiude con un aumento del passivo... L’esercito da solo assorbe un terzo di tutta l’entrata... Il Piemonte accrebbe di 500 milioni il suo debito pubblico... il Piemonte falsò le basi normali del suo bilancio passivo. Ecco adunque il bivio: o la guerra o la bancarotta. La politica del Piemonte in questi anni sarà detta savia, generosa e forte, oppure improvvida, avventata o temeraria, secondoché avremo guerra o pace».

Vinsero, e solo nelle banche dei Borboni trovarono (e prelevarono) l’equivalente di 1.500 miliardi di euro.

MILIARDARI DI STATO – Il conte Camillo Benso di Cavour impose il liberismo assoluto su modello inglese. Di suo, era il maggiore azionista della «Società Anonima Molini Anglo-Americani» (sic) di Collegno, il più grande ente privato granario della penisola. Nel 1853, col raccolto scarso e la fame che infuria fra gli strati popolari, mentre i principati «reazionari» vietano l’esportazione dei grani per nutrire le loro popolazioni, il Piemonte la consente, così che i produttori locali realizzano forti profitti dalle espostazioni del prodotto rincarato. Per questo avvengono disordini davanti all’abitazione di Cavour, stroncati dalla polizia e dalla truppa a fucilate.


Angelo Brofferio
Il già citato Angelo Brofferio, deputato della sinistra, acccusa: «Sotto il governo del conte di Cavour ingrassano illecitamente i monopolisti, i magazzinieri, i borsaiuoli, gli speculatori, mentre geme e soffre l’universalità dei cittadini sottto il peso delle tasse e delle imposte». Il deputato fa notare il conflitto d’interesse: «Il conte di Cavour è magazziniere di grano e di farina...».

Cavour possedeva anche una tenuta a Leri: 900 ettari appartenuti all’abbazia di Lucedio, acquistati da suo padre Michele per due lire durante la prima confisca dei beni ecclesiastici, ossia sotto l’occupazione napoleonica (2).

LA CASTA – «Liberata» la Toscana con «spontanea insurrezione», i massoni locali in attesa delle truppe savoiarde instaurano un governo provvisorio, una dittatura «popolare». La presiede il barone Bettino Ricasoli fiorentino. Cavour stesso dirà di lui al re Vittorio Emanuele: Ricasoli «governava la Toscana come un pascià turco, non badando né a leggi né a legalità.» Brofferio precisa: «I conti del governo toscano (appena abbattuto) prevedevano per il 1859 un avanzo di 85 mila. Nelle casse c’erano 6 milioni in contanti. Il nuovo governo chiudeva il 1859 con un disavanzo di 14 milioni e 168 mila». In meno di un anno, dilapidato oltre il doppio di quel che il dittatore trovò in cassa. Come?

Ancora Brofferio: «Il pubblico erario era dilapidato per saziare l’ingordigia dei nuovi favoriti; lussi di sbirri e di spie all’infinito; espulsioni, arresti, perquisizioni; la guardia nazionale ordinata a servizio di polizia e non a difesa nazionale. Nessuna libertà di persona, di domicilio, di stampa; ogni associazione vietata; uomini senza fede e senza carattere onorati...».

Erano già i raccomandati.


Carlo Farini
SERVIZI DEVIATI – Una infinità di piazze e strade d’Italia sono dedicate a Ricasoli, Cavour, Carlo Farini, Mazzini, Daniele Manin («dittatore» provvisorio di Venezia, alla Ricasoli), a Niccolò Tommaseo, e ad altri terroristi. In questa lista di venerati padri del Risorgimento manca vistosamente un attivissimo eroe: Filippo Curletti, funzionario di polizia politica (la futura Digos), protetto di Cavour e suo strumento. Su suo incarico, Curletti organizzò infaticabilmente spontanee sollevazioni popolari nei principati italiani, onde Vittorio Emanuele potesse dire di «non essere insensibile al grido di dolore» che si levava dagli italiani oppressi dall’oscurantismo, e giustificasse l’intervento dell’armata piemontese. Curletti organizzò sollevazioni ad Ancona, Perugia, Fano, Senigallia, arruolando per la bisogna delinquenti comuni ed evasi.

Come ci riusciva? Lo si scoprì dopo la morte di Cavour, quando Curletti perse il suo protettore e fu processato. Origine del processo fu un pentito – il primo pentito della storia italiana –, Vincenzo Cibolla, capo della «banda della Cocca», una gang di delinquenti che terrorizzò Torino negli anni ‘50. Catturato, Cibolla rivela che il primo informatore della banda, nonché socio nella spartizione del bottino di furti e rapine, era il funzionario di polizia Curletti. La banda della Cocca era il prototipo della Banda della Magliana o delle cosche mafiose che, spesso, hanno dato una mano con attentati e omicidi ai servizi deviati (cosiddetti) nella strategia della tensione.

Condannato a vent’anni in contumacia (era riparato in Svizzera) Curletti pubblica un suo memoriale esplosivo. Raccontando come il Farini, allora dittatore provvisorio di Parma, gli chiese di organizzare l’eccidio del colonnello Anviti (l’ex capo della Polizia di Maria Luigia), come linciaggio «popolare».

«Noi non possiamo toccarlo senza che sorgano clamori – disse Farini a Curletti – Sarebbe mestieri che la popolazione si addossasse l’affare. Voi mi avete compreso». Curletti chiosa: «Io partii, e si sa quel che avvenne».

Il colonnello Anviti, riconosciuto dal «popolo», fu trascinato, fra botte e coltellate e canti patriotticci, «al Caffè degli Svizzeri» di Parma, dove «fu collocato sopra un tavolo e gli fu tagliata la testa mentre non era ancor tutto spento». «Alla testa insanguinata si è voluto far trangugiare una tazza di caffè, le si è posto un sigaro in bocca e in questo modo fu portato sulla colonna che sorge su uno dei quadrati della nostra piazza grande», scrisse il giornale «La Civiltà Cattolica». Il cadavere scempiato fu trascinato nelle strade per quattro ore (3).

Chi erano i patrioti che compirono quest’atto di giustizia popolare? «Un migliaio di precauzionali invecchiati nel vizio e organizzati al delitto», che il dittatore Farini (padre della patria) «fu sollecito a scarcerare dal forte di Castelfranco».

MAZZETTE E TANGENTI – Curletti è uno dei pagatori che – sotto il comando dell’ammiraglio Persano – corrompono con denaro gli alti ufficiali dell’esercito borbonico, onde preparare il successo dei «Mille». Carlo Persano è un pessimo comandante navale (si farà sconfiggere a Lissa, nel 1860, dalla inferiore flotta austriaca), ma un ottimo sovversivo. Nell’agosto 1860 scrive a Cavour «Ho dovuto, eccellenza, soministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti, quattromila al comitato...». In compenso, dice, «possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della Regia Marina napoletana».

Difatti. Ottocento «straccioni» (dice Ippolito Nievo, che era uno di loro) occupano Palermo senza colpo ferire. E penetrano nel regno di Napoli come coltelli nel burro. Massimo D’Azeglio scrive a un nipote il 29 settembre 1860: «Quando si vede un’armata di 100 mila uomini vinta colla perdita di 8 morti e 18 storpiati, chi vuol capire, capisca».

Garibaldi stesso dice chi sono i suoi patriottici guerrieri in camicia rossa: «tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra... con radici nel letamaio della violenza e del delitto».

Infatti, il governo garibaldino che soppianta il re di Napoli è così descritto da Boggio: «Lo sperpero del denaro pubblico è incredibile... somme favolose scompaiono colla rapidità con cui furono agguantate dalle casse borboniche... Si sciupano milioni, mentre ai soldati vostri (scrive Boggi a Garibaldi) si nega persino il pane. I soldati, lasciati privi del necessario, sono costretti a procurarselo come possono, d’onde i soprusi, gli sperperi, le violenze che irritano le popolazioni».

SONO COSTRETTI – Anche il capo della Digos Curletti, spedito a Napoli liberata, attesta: «Trovai Napoli nel più incredibile disordine. L’esercito rigurgitava di donne: milady White e l’ammiraglia Emilia ne erano le eroine. Le notti scorrevano nell’orgia. Garibaldi non era più riconoscibile; quando non soddisfava la sua smania di popolarità facendosi acclamare nelle strade, passava il tempo fra milady e Alessandro Dumas...».

Già allora, veline e puttane, nani e ballerine. Nel governo garibaldino, il ministro Franceso Crispo minaccia il ministro Cordova puntandogli una pistala al petto. E così via.

Garibaldi si monta la testa, e sogna di formare una repubblica mazziniana, tradendo il Piemonte monarchico. Il già citato Boggio lo invita a meditare: da chi ebbe «i cannoni e le munizioni da guerra? E le somme ingenti di denaro? perché, Generale, entraste in Napoli senza colpo ferire?».
E gli ricorda che non è lui ad aver fatto in modo che «i capi delle truppe» disperdessero «le loro truppe».

E Pietro Borreli, massone, scriverà sulla Deutsche Rundschau nell’ottobre 1882: Garibaldi?:

«Una nullità intellettuale. Gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti».

Lo stesso apparato che propagandò Garibaldi come il purissimo eroe dei due mondi, lo derideva come nullità e incapace, e diffondeva la voce che, se il biondo eroe s’era lasciato crescere la bionda chioma a coprirsi le orecchie, era perché gliele avevano tagliate in Sudamerica per un furto di cavalli.

CAPITALISTI SENZA CAPITALE – L’Eroe capì l’antifona, e pronununciò il suo «obbedisco». Se ne andò a Caprera, lasciando il Sud a Vittorio Emanuele. Ma non senza prima aver ceduto l’appalto delle Ferrovie Meridionali a Pier Augusto Adami e ad Adriano Lemmi, entrambi finanzieri ebrei di Livorno, nonché cognati, che avevano pagato parte dei conti del Biondo Nizzardo. Una concessione in cui lo Stato avrebbe dovuto accollarsi tutte le perdite di gestione.

Il deputato Poerio disse in parlamento: tale contratto «vincola per lunghi anni l’avvenire di quelle provincie (meridionali), le sottopone all’onere immenso di 650 milioni di lire, ed assicura inoltre alla casa concessionaria l’utile netto del 17% senza sborsare un obolo del proprio».

Come poi faranno gli Agnelli, i Pirelli, i Bastogi, capitalisti mantenuti col capitale di Mediobanca. Adriano Lemmi diverrà poi Gran Maestro della Massoneria, nonchè padrone del monopolio dei tabacchi.

BROGLI ELETTORALI – Nonostante le rivolte che scoppiano dovunque, le fucilazioni e le repressioni ferocissime (4), i «popoli del Sud» (e della Chiesa) votano in massa per l’annessione ai Savoia nei plebisciti che vengono indetti nei territori appena conquistati, nel 1860. A votare sono quasi 3 milioni di persone, e il 98% si pronuncia per Vittorio Emanuele. E’ un risultato di quelli che oggi si chiamano bulgari, anziché savoiardi. Un pochino strano se si pensa che l’anno dopo, nelle prime elezioni politiche dell’Italia unita del 1861, dove il diritto di voto è basato sul censo e possono votare solo il 2 % dei sudditi (ossia 419.938 maschi), va effettivamente alle urne solo il 57% degli aventi diritto, ossia 242 mila individui.

Il miracolo lo spiega ancora nel suo memoriale il capo della paleo-Digos Curletti, vero misconosciuto eroe del Risorgimento: «Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede (...) Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte; ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti (...) Chiamavamo ciò completare la votazione (..). Per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. Le cose non avvennero diversamente a Parma e a Firenze».

Non essendoci scrutatori dell’opposizione (quale? Ogni opposizione era fuorilegge), essendo i chiamati a votare per lo più analfabeti e ignari del metodo elettorale e quindi astensionisti in massa, la cosa potè passare con facilità. I giornali inglesi inneggiarono al trionfo della democrazia, come oggi per le votazioni in Afghanistan ed Iraq.

ELEZIONI INVALIDATE – Del resto, già nel Piemonte del 1857 Cavour aveva mostrato come rispettasse le urne. Votarono allora, col sistema censitario, solo 69.470 cittadini; il 67% degli aventi diritto, che erano il 2,4% della popolazione. Nonostante ciò, a causa delle esazioni fiscali, della miseria e insicurezza (criminalità altissima) e dei debiti pubblici enormi, in quel voto addomesticato di soli benestanti, l’opposizione (cattolica) passò dal 20,4% al 40,2%. Il governo Cavour rischia di trovarsi di fronte una vera opposizione, e persino di cadere.

La soluzione è presto trovata: il capo del governo Camillo Benso invalida l’elezione di 22 deputati dell’opposizione. La votazione, afferma il 23 dicembre 1857, è il segno che «il partito clericale sta agendo nell’ombra... per far tornare indietro la società, per impedire il regolare sviluppo della civiltà moderna». Colpa dei preti, che nei confessionali hanno indotto a votare contro la Patria. Cavour: «Si denuncia l’uso dei mezzi spirituali nella lotta elettorale». Questa è la motivazione per cui le elezioni sono invalidate: abuso di mezzi spirituali.



Il ladro di cavalli Garibaldi

IN ATTESA DI GIUDIZIO – Nell’inverno 1862-63 Lord Henry Lennox, un ammiratore del Risorgimento, visitò le prigioni di Napoli sotto il governo piemontese, strapiene di ribelli al regime. Ne riferì alla Camera dei Comuni. Sulla prigione di Santa Maria:

«... pensavo che i prigionieri fossero stati processati, prima di essere condannati; mi spiace dirlo, non era così. Un ungherese di nome Blumenthal, in fluente francese, mi disse che si trovava da 18 mesi in cella senza essere stato né processato né interrogato (...). Quando lasciai la sua cella, altri prigionieri si affollarono attorno a me e al mio accompagnatore chiedendoci in italiano: ‘perché siamo in prigione? Perché non ci processano? (...). Il direttore mi rispose che non sapeva cosa dire: aveva sotto la sua sorveglianza 83 persone mai processate, delle quali circa la metà non erano nemmeno state sottoposte a interrogatorio. Erano detenuti senza sapere di quale delitto fossero accusati (...). Molti di loro erano uomini dall’aspetto misero, balbettanti, i capelli bianchi, appoggiati a grucce, poveri disgraziati desiderosi solo di finire i propri giorni in un ospizio».

Visita alla prigione La Concordia:

«... C’erano un vescovo cattolico romano e due preti, tirati giù dal letto un mese prima, e destinati a trascorrere i propri giorni in compagnia di criminali incalliti (...). C’era un uomo in prigione da due anni, un vecchio vicino ai settant’anni, curvo per l’età e costretto ai pasti carcerari: uno al giorno e solo acqua da bere».

Una prigione a Salerno:

«... Il direttore fu estremamente cortese e, saputo il motivo della mia visita, si augurò che potesse recare qualche positiva conseguenza. Soggiunse che era costretto in quel momento a tenere 1.359 prigionieri in un carcere che poteva ospitarne 650: tale affollamento aveva provocato un’epidemia di tifo che aveva ucciso anche un medico e una guardia».

Visita alla prigione della Vicaria:

«… Dei 1000 prigionieri, 800 erano confinati in cinque stanze non divise da porte, ma da sbarre di ferro, cosicché gli effluvii emanati da quegli 800 uomini circolavano liberamente da un capo all’altro (...). Ma torniamo al cortile della prigione. Per fortuna non capita spesso di vedere quello che ho visto, uno spettacolo che non dimenticherò mai... Non appena mi videro, i detenuti si precipitarono verso di me con grida pietose e reiterate, con gli occhi iniettati di sangue e le braccia protese, implorando non la libertà, ma il processo; non la clemenza, ma una sentenza (...). Ho conversato con detenuti in attesa di giudizio che mi dicevano: ‘Se almeno potessimo avere qualche indizio della sentenza che ci attende, la nostra disperazione non sarebbe così nera. Alla fine di ogni cammino, per quanto duro, è possibile scorgere una scintilla di speranza; ora invece c’è solo disperazione».

HOLODMOR MERIDIONALE – Il francese Charles Garnier raccolse un buon numero di proclami emessi dai comandanti piemontesi durante la guerra al brigantaggio, ed affissi nei paesi. Generale Galatieri, dal suo quartier generale di Teramo, giugno 1861: «Vengo a difendere l’umanità e il diritto di proprietà, e sterminare il brigantaggio. Chiunque ospiti un brigante sarà fucilato senza distinzione di sesso, età, condizione; le spie faranno la stessa fine. Chiunque, essendo interrogato, non collabori con la forza pubblica per scoprire le posizioni e i movimenti dei briganti, vedrà la sua casa saccheggiata e bruciata».
Proclama del maggiore Fumel, febbaio 1862:

«... Coloro che diano asilo o qualsiasi altro mezzo di sussitenza ai briganti, o li vedano o sappiano dove han trovato rifugio e non informino le autorità civili e militari, saranno immediatamente fucilati. Tutti gli animali dovranno essere condotti nei depositi centrali con scorta adeguata.

Tutte le capanne (usate dai pastori, ndr) dovranno essere bruciate. Le torri e le case di campagna disabitate dovranno essere scoperchiate, e le entrate murate nel termine di tre giorni; dopo lo spirare di tale termine, esse saranno bruciate senza fallo e gli animali privi di custodia appropriata saranno uccisi.

E’ proibito portare pane o altro genere di provviste fuori dell’abitato del comune; i trasgressori saranno considerati complici dei briganti. La caccia viene temporaneamente proibita.

Il sottoscritto non intende riconoscere, date le circostanze, più di due schieramenti: pro o contro i briganti! Pertanto classificherà tra i primi gli indifferenti e contro di loro adotterà misure energiche, perché in tempo di emergenza la neutralità è un crimine.

I soldati sbandati che non si presentassero entro quattro giorni, saranno considerati briganti».

Il colonnello Fantoni, nel proclama emesso da Lucera il 9 febbraio 1862, nel primo articolo, vietava l’accesso, anche a piedi, a tredici foreste, fra cui quella del Gargano.

«Ogni proprietario terriero, fattore o mezzadro sarà obbligato, subito dopo la pubblicazione di questo avviso, a ritirare da dette foreste tutti i lavoratori, pastori, pecorai, eccetera, e con loro le greggi; dette persone saranno obbligate a distruggere tutte le stalle e le capanne erette in questi luoghi.

D’ora in avanti nessuno può portar fuori dai distretti circonvicini alcuna provvista per i contadini, e a questi ultimi non sarà permesso portare più cibo di quanto sia necessario per un singolo giorno ad ogni persona della loro famiglia.

Coloro che non obbediranno a questo ordine, che entrerà in vigore due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza eccezione alcuna di tempo, di luogo e persona, fucilati».

Prefetto De Ferrari, di Foggia e Capitanata, 1863: «... Tutti gli animali del territorio saranno immediatamente radunati in poche località a fine di essere meglio custoditi. Tutte le piccole fattorie saranno abbandonate, cibo e foraggio rimossi e gli edifici murati. Nessuno potrà andare nei campi senza autorizzazione scritta del sindaco e scorta sufficiente».

L’8 luglio, il prefetto Ferrari aggiunge un altro divieto: «I cavalli possono essere ferrati solo in pubblico e in officine autorizzate; nessun maniscalco o produttore di ferri e chiodi poteva allontanarsi dal proprio distretto senza un documento, che indicasse la via che avrebbe percorso, l’ora della partenza e l’ora del ritorno. Chiunque possedesse ferri e chiodi per la ferratura doveva farne denuncia alle autorità».

Non erano vane minacce. Il 29 aprile 1862 il deputato Giuseppe Ferrari disse alla Camera: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle provincie, degli uomini, assolti dai giudici, che restano in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato... Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».

Fu la rovina della sussistenza economica, la messa alla fame; decine i paesi incendiati, innumerevoli le atrocità, di cui per lo più è stata soppressa la memoria, che ricordano da vicino lo sterminio dei contadini in Ucraina, operato da Stalin e Kaganovich.

Di una atrocità si sa, perché ne discusse la Camera dei Comuni britannica: a Pontelandolfo in Molise, trenta donne che si erano rifugiate intorno alla croce eretta nella piazza del mercato, sperando di trovarvi scampo dagli oltraggi, furono tutte uccise a colpi di baionetta. Persino Napoleone II, che aveva dato il suo potente appoggio armato a Cavour per la conquista dell’Italia, il 21 luglio 1863 scriveva al suo generale Fleury:

«Ho scritto a Torino le mie rimostranze; i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da alienare tutti gli onesti dalla causa italiana. Non solo la miseria e l’anarchia sono al culmine, ma gli atti più indegni sono considerati normali espedienti: un generale di cui non ricordo il nome, avendo proibito ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro dei campi, ha decretato che siano fucilati tutti coloro che vengono trovati in possesso di un pezzo di pane. I Borboni non hanno mai fatto cose simili – Napoleone».

Dato che l’Italia è nata così, non ci si può stupire che oggi sia così. In fondo, può essere consolante: non siamo peggiorati, eravamo peggiori fin dall’inizio.
Da centocinquant’anni questo merdaio originale, anziché essere discusso e servire a un severo esame di coscienza nazionale (4), viene nascosto, e verniciato in similoro con la ripugnante tronfia retorica risorgimentale emanata direttamente dalle logge; chi obietta e riporta i dati del merdaio viene seppellito dalle accuse di «integralismo cattolico», «revisionismo» vietato, reazione; e censurato dai media – come il volume della storica Angela Pellicciari da cui abbiamo tratto queste informazioni.

La retorica risorgimentale ci sommergerà con le sue mucillagini dolciastre e infette anche nelle imminenti Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, per cui sta spendendo 800 milioni di euro il Comitato celebrativo: presieduto da un livornese come lo erano i banchieri Adami e Lemmi.

Giornalisti a ciò addetti, e ben istruiti, già si sono portati avanti. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo già vagano nei luoghi santi della retorica massonica, Calatafimi, Teano, eccetera, per sgridare «noi italiani senza memoria». Noi abitanti di un Paese «che sembra aver buttato via l’unica epopea che aveva. Quella del ‘Risorgimento’. Il grande romanzo culturale, militare e sociale».

Si domanda Stella: «E’ questa l’‘Italia redenta, pura di ogni macchia di servitù e di ogni sozzura d’egoismo e corruzione’ che immaginava Mazzini?».

Stella e Rizzo ci scriveranno un libro di successo assicurato: noi italiani senza memoria, appunto.

Senza memoria? L’avete voluto voi: rivendichiamo la memoria censurata. Lo facciamo proprio in quanto italiani: quella menzogna sanguinosa che cova nel cuore italiano è precisamente la frattura interna che rende l’Italia corrotta, moralmente malata, incapace di reggersi nel mondo con dignità, senza spezzarsi ai primi scontri con la storia.

Il tradimento originale è sempre pronto a riemergere in nuovi tradimenti, intelligenze col nemico, diserzioni sul campo e particolarismi delinquenziali – proprio perché la ferita non è sanata, ma coperta con cataplasmi di menzogna e retorica, che la fanno marcire all’infinito.

Il 150enario da cui Ciampi guadagna e fa guadagnare i suoi compari, facciamolo diventare una rivendicazione di verità: verità sul Risorgimento! perché senza verità non ci sarà alcun risorgimento possibile. La verità sola, e intera, può essere l’inizio della riconciliazione.

Quindi, lancio un appello ai lettori. Andate sul sito ufficiale del Comitato Celebrativo di fratel Ciampi (http://www.italia150.it/); non perdete tempo a leggere le ridicole menzogne che già lo affollano («150 anni e non li dimostra», per esempio); andate in alto a destra, dove c’è la voce «contatti». E alluvionate quei «contatti» di mail, lettere e fax con un solo messaggio:

Verità sul Risorgimento!

Ricordate le Marzabotto del Sud, a cominciare dalle donne di Pontelandolfo! Non più silenzio sui lager piemontesi per i soldati delle Due Sicilie! Fatevi tornare la memoria!

Si potrebbe anche ricorrere al sarcasmo. Per esempio, fare una petizione per un monumento a Curletti, il capo della polizia politica di Cavour e insieme della banda della Cocca, grande suscitatore di spontanee manifestazioni popolari e prezioso completatore di votazioni.

Proponete l’iscrizione: «Filippo Curletti, patriota e poliziotto, pregiudicato contumace».

Oppure, fate una petizione popolare per intitolare una piazza ad Adami e Lemmi, «profittatori e cognati».

Ma forse è meglio di no, non hanno il senso dell’umorismo. Ciampi potrebbe anche farlo.


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1) Nel Regno delle Due Sicilie la tassazione era la più lieve d’Europa (-30% di quella inglese, meno 20% di quella francese). La tassa ammontava, nel 1859, a 14 franchi a testa. Nel 1866, sotto il regime italiano, erano salite a 28 franchi a testa. Fu più che raddoppiata la tassa sul macinato (che colpiva i poveri) «ed estesa a tutte le granaglie, persino alle castagne»; fu estesa al resto dell’Italia la minuziosa tassazione savoiarda, come la tassa sulle finestre, «la gabella sulla macellazione del maiale» e «il dazio sul minimo consumo» (che colpiva chi comprava un litro di vino per volta, ma non chi ne comprava 25 litri). Non solo il Regno di Napoli fu il primo a mettere in esercizio la prima ferrovia in Italia, ma anche il primo telegrafo, il primo ponte sospeso, i primi fari diottrici moderni furono costruiti e installati nel regno dei Borboni, da una classe tecnica evidentemente competente e moderna. Il primo battello a vapore varato da un arsenale italiano fu costruito a Napoli. Il giornalista francese Charles Garnier fornì prove certe del fatto che, nei primi sei anni dell’unità italiana, alcune delle più prospere manifatture napoletane furono deliberatamente distrutte per favorire quelle del Nord (Patrick K. O’Clery, «La Rivoluzione Italiana», Ares, 2000, pagina 374).
2) La confisca dei beni ecclesiastici provocò la sparizione di quel poco di previdenza e assistenza sociale vigente, che era tutta e solo caritativa e cattolica; ne risultò un tragico peggioramento della miseria delle classi povere, con un conseguente aumento esponenziale della criminalità.
3) A Venezia e a Roma avvennero episodi simili nel 1848. A Roma Pellegrino Rossi, ministro del Pontefice, fu circondato dalla folla e accoltellato alla gola sotto gli occhi della Guardia Civica rivoluzionaria, poi lasciato agonizzare nel palazzo stesso dov’era il parlamento rivoluzionario. A Venezia, istigata da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, una folla feroce s’impossessò del comandante dell’Arsenale, colonnello Marinovich, «impopolare presso gli operai per la rigida disciplina a cui li sottoponeva». Gli operai afferrarono lo sventurato, lo trascinarono giù per le scale, lo percossero spietatamente, lo trafissero ripetutamente con la sua stessa spada e con coltelli. Il poveretto implorò un prete, ma gli venne negato; fu linciato e fatto a pezzi da centinaia di individui. Il governo repubblicano definì l’evento un giudizio di Dio. E’ evidente che questi orrende macellerie furono atti deliberati, con lo scopo di spargere il terrore tra i legittimisti e dissuaderli da ogni resistenza. Resta la constatazione che gli italiani brava gente, periodicamente, si producono in vili scempi di cadaveri. Da noi sono ricorrenti i Piazzali Loreto, atti tipici di vili impotenti. Nel 1814 gli animosi milanesi avevano già massacrato nello stesso modo Giuseppe Prina, ministro delle Finanze del Regno d’Italia napoleonico: con le punte degli ombrelli, per quattro ore, fino a renderne il corpo irriconoscibile. La folla era guidata dal patriota Federico Confalonieri. Si veda Patrick K. O’Clery, citato, Ares, 2000, pagina 142.
4) Il solo Nino Bixio eseguì oltre 700 condanne a morte senza processo. Da un giornale dell’epoca, L’Unione: «Bixio ammazza a rompicollo, all’impazzata... fa moschettare tutti i (soldati e ufficiali) prigionieri stranieri che gli capitano tra le unghie, e tira colpi di pistola a quei suoi ufficiali che osano far motto di disapprovazione». Esecuzioni per stroncare una possibile classe dirigente legittimista: purghe staliniane ante litteram.

Per esempio ci si dovrebbe chiedere se le burocrazie pubbliche inadempienti e disoneste che gravano sulla società non abbiamo ereditato lo spirito di corpo della burocrazia piemontese: immediatamente estesa all’Italia appena conquistata, essa non si visse ovviamente come a servizio della popolazione, ma con la missione di taglieggiarla e controllarla come corpo ostile, ponendo quanti più ostacoli alla sua iniziativa libera, ritenuta pericolosa. Ancor oggi l’apparato burocratico (la Casta) si comporta rispetto alla società come un nemico occupante. La stessa riflessione va fatta per le istituzioni in generale. I Savoia non crearono un sistema giuridico italiano; si limitarono ad estendere al resto dell’Italia - appunto come occupanti - il «diritto» piemontese, tanto che a Napoli si faticò a tradurre le nuove leggi, scritte in italiano approssimativo, infarcito di francesismi e termini dialettali subalpini.

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