domenica 2 maggio 2010





Non ho mai capito la festa del Primo Maggio, festa del lavoro.
di Massimo Fini - 01/05/2010

Fonte: Massimo Fini [scheda fonte]



Non ho mai capito la festa del Primo Maggio, festa del lavoro. Che
cosa, in realtà, festeggiano in questo giorno i lavoratori? La loro
schiavitù. Non è una festa, gli "han fatto la festa". Il
lavoro
diventa un valore con la Rivoluzione industriale e i pensatori che
cercano di razionalizzarla. Per Marx è "l’essenza del
valore", per i
liberal-liberisti è quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il
famoso "plusvalore". Prima il lavoro non era affatto un
valore. Tanto
è vero che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano
solo per quanto gli basta. Il resto è vita. Non che artigiani e
contadini amassero il loro mestiere – che peraltro è un concetto
diverso dal lavoro come spiega R. Kurz in "La fine della politica e
l’apoteosi del denaro" – meno di un operaio di fabbrica o di un
impiegato o di un ragazzo dei call-center, certamente lo amavano molto
di più perché gli permetteva di esprimere le proprie capacità e la
propria creatività, ma non erano disposti a sacrificargli più di tanto
del loro tempo che è "il tessuto della vita" come dice
Benjamin
Franklin che peraltro lo usava malissimo: a fare denaro (anche
scopare, per questo perfetto prototipo della borghesia protestante e
autopunitiva, è una perdita di tempo, lo si fa "solo per la
salute").

E quando nel Duecento e nel Trecento compaiono a Firenze, nel
piacentino e poi nelle Fiandre i mercanti come forte classe sociale
(prima il mercante, presso tutte le culture, sedeva all’ultimo gradino
della scala sociale, perché si riteneva indegno di un uomo scambiare
per denaro, e il kafelos greco, piccolo commerciante al dettaglio, è
una macchietta abituale del teatro di Aristofane) la gente del tempo
li guarda come fossero dei matti perché non capisce che senso abbia
accumulare denaro su denaro, ricchezze su ricchezze per portarsele
nella tomba. C’è la storia, patetica quanto esemplificativa, di
Francesco di Marco Datini, il famoso mercante di Prato, il quale dopo
aver fatto per trent’anni l’imprenditore ad Avignone ritorna nella sua
città natia deciso a godersi la vita. Ma non ce la fa proprio, è
continuamente angosciato dalla sorte delle sue navi e quando, alla
fine, muore senza figli lascia tutto a Santa Madre Chiesa. Il concetto
che il tempo fosse più importante del denaro era così radicato negli
uomini di quel tempo che quando i primi imprenditori industriali
introdussero il cottimo si accorsero, con loro grande sorpresa, che la
produttività diminuiva invece di aumentare, perché i lavoratori
preferivano rinunciare al cottimo e andare a spasso, in taverna, a
giocare a birilli, a corteggiare la futura sposa.

Ma è stata la mentalità paranoica del mercante a prevalere, a fare
della maggioranza di noi, per dirla con Nietzsche, degli "schiavi
salariati", a frantumare i nuclei costitutivi dell’essere umano. I
suicidi in Europa dal 1650 – epoca industriale – ad oggi sono
decuplicati, nevrosi e depressione sono malattie della Modernità,
l’alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale, il montante
fenomeno della droga è sotto gli occhi di tutti. E la globalizzazione,
che inizia anch’essa con la Rivoluzione industriale e arriva a piena
maturazione negli ultimi decenni con l’acquisizione del modello di
sviluppo occidentale di quasi tutti i Paesi del mondo (quelli che non
ci stanno li bombardiamo), esaspera tutti questi processi. La
globalizzazione è, in estrema sintesi, una spietata competizione fra
Stati che passa per il massacro delle popolazioni del Primo e del
Terzo mondo. Per restare a galla saremo costretti tutti a lavorare di
più, a velocità sempre maggiore, accumulando così altro stress,
disagio, angoscia, depressione, nevrosi, anomia. Infine, di passata,
"una società" come scrive Nietzsche "che proclama
l’uguaglianza avendo
bisogno di schiavi salariati ha perso la testa". E noi
l'abbiamo
persa. Tant’è che oggi celebriamo allegramente la festa della nostra
schiavitù.

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