giovedì 22 ottobre 2009

Il futurismo rivoluzionario



In un articolo de «L’Ordine Nuovo» del 5 maggio 1921, Antonio Gramsci scriveva:

«I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso, una opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in sé stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simili questioni, quando i socialisti certamente non avevano una concezione precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello stato e nella fabbrica».


Il futurismo, quindi, secondo Gramsci, ha i caratteri di un movimento rivoluzionario in quanto ha distrutto contenuti, forme e schemi dalla tradizione culturale aprendo la strada ad un tipo di arte del tutto nuova. La cultura proletaria avrebbe dovuto sviluppare e rafforzare le indicazioni della rivoluzione futurista: bisognava far nascere un tipo di cultura totalmente diversa da quella borghese, spezzando le distinzioni di classe e il carrierismo borghese. Sarebbero dovuti nascere una poesia, un romanzo, un teatro, un costume, una lingua, una pittura, una musica che avrebbero dovuto essere adeguato ornamento della società proletaria. Gramsci si augurava che si realizzasse una cultura proletaria, creata dagli operai stessi. Nel manifesto del futurismo, elaborato da Filippo Tommaso Marinetti, a Parigi, il 9 febbraio del 1909, tra le altre cose, erano contenute queste finalità artistiche: «Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla rivoluzione nelle capitali moderne; canteremo il vibrante “fervore notturno degli arsenali e dei cantieri”». Questo programma, cosi innovatore e cosi sensibile alla realtà industriale e, quindi, operaia che andava emergendo nella società, fece nascere, tra i marxisti italiani (e non solo italiani), la convinzione che si avesse a che fare con un’arte rivoluzionaria, assolutamente marxista come scrisse Gramsci. Perfino Giuseppe Prezzolini, in un articolo pubblicato ne «Il Secolo» del 3 aprile 1923 e intitolato «Fascismo e Futurismo», affermò: «La fabbrica è stata la sorgente delle idee politiche bolsceviche; ed è stata la inspiratrice dell’arte futurista». Tale realtà industriale ed operaia non trovava alcuna eco nei movimenti artistici tradizionali, in cui prevalevano con tenuti sentimentalistici, intimistici, individualistici, arcadici. La città, con le sue esigenze e con i suoi problemi, era ignorata: i letterari erano impegnati a scrivere soltanto «sonetti e canzoni arcadiche» come disse Gramsci. Queste lacune furono, con vistosità e clamore, colmate dei futuristi.
Questa nuova creatività Futurista, però, non aveva radici, non nasceva da motivazioni profonde, rimaneva piuttosto superficiale. Al riguardo, i può condividere il giudizio di Dino Mingozzi che, qualche anno fa, per i «Quaderni della FIAP», scrisse un interessante volumetto, intitolato Gramsci e il futurismo (1920-1922): «In questo modo l’esatta impostazione del problema di una creatività che si estendeva a strati nuovi della società civile non veniva portata da Marinetti, alle conseguenze più coerenti e importanti, in quanto egli tralasciava di studiare e di prendere esatta coscienza del fattore che più spiccatamente poteva contenere valenze anticapitalistiche. La consapevolezza da parte dell’individuo delle ragioni del proprio lavoro e del proprio operare nel mondo. Si può dire che Marinetti era prodigo di enunciazioni di principio che trovavano scarsissimo riscontro nella realtà; la coscienza sociale di Marinetti era molto limitata ed indubbi limiti aveva anche la sua coscienza umana e storica. Il fatto che il Futurismo si proponesse come scopo quello di rappresentare artisticamente le condizioni di vita della attività industriale e moderna e che cioè si candidasse come movimento artistico nazionale e popolare, fece sì che Gramsci, che aspirava ad una cultura nazional-popolare guardasse ad esso con interesse, considerandolo

mercoledì 21 ottobre 2009

La fine del mondo



Sette torri sullo sfondo di una miriadi di croci, le paure sul nostro futuro!

mercoledì 7 ottobre 2009

Torniamo ad ascoltare





Intervista di Mauro Suttora a Ivan Illich
Libertaria (anno 3 n.4 Ottobre-dicembre 2001).

“No, per favore, nessuna tele­camera. Niente video. Spenga anche quel registratore”.

E come faccio a intervistar­la? Non vuole che le sue paro­le vengano riportate fedel­mente?

In questo momento de­sidero soprattutto che lei mi ascolti. Voglio comunicare direttamente con lei. Senza passare attraverso un magne­tofono.

Sono tutto orecchi.

Ormai non siamo più ca­paci di usare bene le nostre orecchie. Gli strumenti tecni­ci di cui ci siamo circondati hanno indebolito il nostro udito. Così come anche tutti gli altri sensi.

E oggi?

Una volta una bambina di nove anni mi ha detto che nel corso del pomeriggio ave­va visto «Kennedy, Reagan ed E. T. come vedo te». Il «vede­re» evidentemente per lei si è staccato dall’incontro. Fino al primo millennio lo sguardo era vissuto come un raggio che cade dall’occhio sull’oggetto.. Quest’atteggiamento è stato rovesciato da Keplero: l’occhio è diventato la porta di ingresso per i raggi del sole che consegnano, “come i cavalieri della posta”, la vista delle cose alla retina. E’ il principio della camera oscura. Ma oggi è in atto un ulteriore rovesciamento: tramite l’occhio noi tutti siamo ingaggiati dagli schermi della televisione, ci trasferiamo nell’azione sullo schermo. L’occhio è stato arruolato al servizio del medium.

Insomma, in singolare seppur involontaria sintonia con le tesi di Giovanni Sartori, il quale prende di mira l’uomo videns, che tutto vede (in TV), ma poco o nulla capisce, anche lei incolpa i media per la “perdita di senso” che sembra attanagliare sempre di più il cittadini contemporaneo. Si ripete così il paradosso da lei evidenziato vent’anni fa: malati “arruolati” al servizio dei medici, studenti “arruolati” al servizio dei professori e non viceversa, mass media che creano la pubblica opinione invece di rifletterla.

Esatto. L’esempio dei sistemi sanitari, che sono ormai strutture elefantiache divoratrici i soldi, è tipico. Il paziente moderno si affida con naturalezza al medico, che gli descrive e gli spiega la sua condizione sulla base di numerosi esami. Ma questo è un comportamento che non esisteva fino al Novecento. Prima il paziente andava dal proprio medico per mostrarsi a lui e per esporgli le sue lamentele.. Occasionalmente il medico sentiva o degustava la sua urina. Anche le persone più povere e analfabete si confidavano con il dottore con una precisione incredibile. Compito del medico era interpretare la storia dei dolori del paziente, partendo da lì per la cura. Oggi invece non c’è più ascolto: gli specialisti si appoggiano a valanghe di esami. Ma se qualcuno alla domanda “come ti senti?” mi rispondesse con la pressione sanguigna e livello ormonale, vorrei vomitare. Invece, questo è proprio ciò che accade oggi.

La “realtà virtuale” oggi porta all’estremo la scissione tra percezioni sensoriali e mondo fisico reale.

Sì. Sempre di più non vediamo le cose dove sono tangibili, non le vediamo in un modo in cuui possano essere toccate. Sempre più spesso diventa una nostra abitudine prendere sul serio delle voci senza corpo al telefono. Ma attenzione: non sta per sparire soltanto quella che gli antichi chiamavano sin-estesia, cioè la collaborazione fra i diversi sensi. Perfino il “Senso comune”, che rendeva possibile la percezione sensoriale dell’intonazione giusta, del rispetto, della proporzionalità sensata, appartiene ormai al passato.

Ma si possono distinguere, nella storia, periodo caratterizzati dall’uso privilegiato di un senso: l’epoca dell’olfatto, della vista, del tatto, dell’ascolto, della parola?

E’ difficile immaginare oggi cosa succedeva in un teatro greco 500 anni avanti Cristo. Era qualcosa che Platone trovava indecente: le maschere (coscientemente non parlo di “attori”) non ave­vano spettatori (theoretes) , ma ascoltatori (akouontes), che si lasciavano trascinare nel ritmo, nel tatto, nelle ca­denze, nelle melodie dello spettacolo, presentato senza alcun atteggiamento critico. Platone cercò invece di pro­muovere il “guardare” gli spettacoli, e pretendeva addi­rittura che nel suo stato idea­le certi tipi di melodie fossero vietate del tutto.

Nulla sembra cambiato ri­spetto a quarant’anni fa, con le accuse al rock di essere la “musica del diavolo”, o ri­spetto a oggi, con le polemi­che degli odierni cinquanten­ni (i rockers di ieri) contro i ritmi techno, house o garage che stordirebbero le nuove generazioni.

Certo. Ma già Aristotele criticò su questo il suo mae­stro Platone, perchè secondo lui una limitazione al solo “guardare” non coglieva la sostanza della tragedia. La tragedia è invece mimesis praxeos, cioè “l’esecuzione coinvolgente in un’azione”, una risonanza con qualcosa che l’ascoltatore deve capire in modo quasi tattile.

Nell’Italia dei nostri giorni la riscoperta della parola è te­stimoniata dal calo degli spettatori televisivi, dall’au­mento di quelli radiofonici e del teatro, dal successo dei talk show e di spettacoli come quello di Marco Paolini, con il suo eccezionale monologo sul Vajont.

Purtroppo non conosco l’Italia di oggi. Ma secondo Aristotele l’artista-oratore nel teatro, nell’insegnamento, e anche in politica, può coin­volgere completamente l’ascoltatore-spettatore soltanto con la mimesis, l’esperienza di una nascita. Solo così può promuovere il pathei mathos, l’”imparare a soffrire” da co­loro che hanno vissuto una forma di sofferenza…”

Con il rischio di cadere nella «tv del dolore»…

… ma sempre Aristotele, nella “Poetica”, sottolinea co­me la presentazione visiva della sofferenza nel caso migliore può servire come “se­gno” (semeia), senza produrre grandi effetti sullo stato dello spettatore. Invece l’orazione artistica e la melodia possono modellare il carattere dell’a­scoltatore, mettendogli le ali per partecipare fisicamente.

Qual è il tipo di ascolto che lei, fondatore dell’ecologia moderna, considera più “sa­no”?

Quello della comunica­zione diretta, fra persone che possono guardarsi in faccia. Un dialogo che coinvolge l’o­recchio, ma anche la vista: “Ti do me stesso attraverso le pu­pille dei miei occhi”.